Musik

di Angela Schanelec

Il film che finalmente consacra Angela Schanelec e il suo sguardo verso il mondo: un cinema che si racconta attraverso i corpi e il Mito, immagini perdute che diventano estensione della memoria.

musik recensione film

Là dove si chiude uno dei capolavori di Theo Angelopoulos, Paesaggio nella nebbia del 1988, così si apre l’ultimo film di Angela Schanelec, Musik, in una vallata avvolta nella nebbia, metafora, se vogliamo, di tutto quello che sarà poi il film. Un trait d'union come appiglio per non perdersi all’interno di un’opera fortemente antinarrativa, ellittica e frammentata, che si muove sincopata tra momenti di assoluto silenzio ed esplosioni musicali.
Il film tenta di(ri)portare il cinema allo stadio zero, lì dove le immagini contano più di ogni cosa, dove il montaggio diventa scostante, mai accondiscendente e fortemente sfidante nei confronti dello spettatore. Un montaggio che unisce, spesso esulando dalle pure logiche narrative, immagini che assomigliano a singoli atomi, particelle che messe a contatto potrebbero esplodere.

Le occasioni di sollievo durante la visione arrivano dai pochi e indispensabili movimenti di macchina, lente panoramiche che tentano di scostare il velo di Maya che sempre allontana l’uomo dalla conoscenza della verità, quella coltre di nebbia fitta e densa che avvolge il mondo creato da Schanelec. E se per Schopenhauer vi era una volontà intrinseca nel nostro inconscio – un impulso irrefrenabile verso la conoscenza, energia sempiterna in grado di squarciare il velo e guidarci verso la consapevolezza di non essere solo carne ma anche desideri e bisogni che arrivano dal di dentro – anche i personaggi di Musik sembrano essere sempre sul punto di esplodere (come le immagini stesse del film), guidati da istinti e pulsioni di ogni tipo, dall’odio più feroce e immotivato fino all’amore più profondo. Musik ha, fin dalle primissime immagini, il respiro e il sapore di una narrazione che fonda le sue radici nella storia della civiltà umana, lì dove è nata l’arte dell’affabulazione, del racconto, della tragedia. Schanelec decide di ambientare il suo film in Grecia, prendendo spunto e, ovviamente, riadattando l’opera che forse più di tutte ha dato il via alla tradizione drammaturgica greca, ovvero l’Edipo Re di Sofocle. Un racconto che diventa subito globale, ampissimo nella sua visione perché totalmente perso nel tempo e nello spazio - se inizialmente siamo portati a pensare che le vicende siano temporalmente adiacenti alla realtà, è la voce di un telecronista che arriva dalla televisione, intento a esaltare il gol di Fabio Grosso ai mondiali di Germania 2006, a ricondurci in un momento preciso del tempo, che subito si dissolve nell’anacronismo dei movimenti dei personaggi. Domina un senso di disorientamento che viene ampliato dal modo in cui la regista tedesca decide di utilizzare e inquadrare le morfologie del terreno, trasformando il paesaggio duro e a tratti post-apocalittico delle coste greche in un non-luogo, operazione accomunabile allo sguardo con cui Pasolini catturava (non solo per i suoi silenzi) i paesaggi dell’Etna in Teorema (1968) e Porcile (1969).

Musik è un film che ci parla di corpi ancor prima di qualsiasi altra cosa, raccordi di immagini parziali che tentano di ricomporre una fisicità persa nel tempo: piedi, mani e porzioni di volti sono i soggetti delle immagini di Schanelec, che ancora una volta rimandano ad Angelopoulos e a quella mano gigante estratta dal mare in Paesaggio nella nebbia, con i volti attoniti dei bambini di fronte all’immensità della storia.
Ed è da queste porzioni di corpi che Musik riparte, da indizi che rimandano alla totalità che ancora rimane celata nel fuori campo (in fondo al mare, come nel caso di Angelopoulos); un cinema di sottrazioni – dal montaggio alle interpretazioni stesse dei personaggi, fino al sonoro che molto ricorda i film più radicali di Bresson –che restituisce però linfa vitale con una conclusione totalmente musikale e liberatoria, che sgancia finalmente lo spettatore dal mistero nascosto al di sotto del velo per restituirgli (anche se dolorosa come nel caso di Edipo) la conoscenza della verità.

È un cinema, questo di Schanelec, che sì rischia di annoiare e stordire, ma che se accolto come sfida è in grado di stupire e appagare. Capace di ragionare su argomenti alti senza risultare puro e semplice esercizio di stile e teoria, perché al centro di tutto torna a esserci l’uomo, come essenza trascendentale e come pura carne, simbolo di un mondo che sta ancora cercando di ricalibrare le proprie coordinate.

Autore: Emanuele Polverino
Pubblicato il 06/03/2024
Germania, Francia, Serbia 2023
Durata: 108 minuti

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