Blazing Fists

di Takashi Miike

Ed è nell’underground che Miike Takashi torna a raccontare le sue storie, di rivalsa e rivincita su un potere ormai insondabile e inafferrabile, nemico invisibile di intere generazioni e simbolo di una politica schiava della corruzione

recensione film Miike

Presentato all’ultimo International Film Festival di Rotterdam, Blazing Fists (o Blue Flight), è l’ennesimo tassello nella sconfinata filmografia del regista di culto Miike Takashi.
Sono passati sei anni dall’ispiratissimo First Love (2019), la storia di un giovane boxeur impegnato a salvare la vita del suo primo amore; nel mezzo, una serie di discutibilissime mega produzioni – una su tutte, quella con Disney per la serie Connect – e un mediometraggio tratto dall’omonimo manga di Tezuka Osamu: Midnight. Ed è proprio qui che Miike sembra gettare le basi per il suo ultimo lavoro, dichiaratamente ispirato alla storia del lottatore di MMA Asakura Mikuru, ma ben lontano dalle architetture del biopic classico. Come per First Love e Midnight, anche in Blazing Fists il regista nipponico decidere di fondere il suo cinema alla dimensione del fumetto. Ma se nei primi due film sembrava essere tutto un discorso di forma – le scene animate in First Love o le tavole di Tezuka in Midnight – per Blazing Fists il tutto si amplia, accoglie la narrazione che ricalca il classico racconto seinen per sfociare in un vero e proprio spokon, dove lo sport – un’altra volta da combattimento, ritorna il collegamento con First Love – si fa cantore di una rinascita personale e collettiva, dove il villain sembra mutare pian piano per tutta la storia, per ritornare idealmente alle inquadrature iniziali, tra le sbarre dell’istituto correttivo - mutato nell’ottagono da MMA - e l’ombra oppressiva dello Stato - incarnata dalla rampante progenie della classe dirigente.

Come per buona parte delle produzioni di Miike Takashi, anche Blazing Fists, scritto a quattro mani con Kibayashi Shin, è un film che parla di, e ai giovani. Ikuto Yagura (interpretato dall’esordiente Kinoshita Danhi) e Akai Ryoma (Yoshizawa Kaname) sono due diciasettenni che stanno scontando la loro condanna in riformatorio. Ikuto per un crimine che sembra non aver commesso – come del resto suo padre, in carcere per uno scambio di persona durante le indagini – Ryoma a causa di una bravata nel tentativo di sanare un grosso debito nei confronti della piccola gang di quartiere. Sarà un incontro con lo stesso Asakura Mikuru, ex fighter professionista e creatore del Breaking Down, un evento di arti marziali in cui fighter di ogni tipo si sfidano nell’arco di tempo di un solo round nel tentativo di strappare un contratto tra i professionisti, ad unire indissolubilmente le vite dei due.
Ed è nell’underground che Miike Takashi torna a raccontare le sue storie, di rivalsa e rivincita su un potere ormai insondabile e inafferrabile, nemico invisibile di intere generazioni e simbolo di una politica schiava della corruzione. Una ribellione che parte dallo schiaffo di una madre che prende le difese di un figlio schiacciato dalla (falsa) autorità di una guardia carceraria, e che passa per un amore giovanile riscoperto e ritrovato dopo anni. È dalle figure femminili che il cinema di Miike si mette in moto, le uniche in grado di mettere da parte l’orgoglio per riuscire a riscattarsi da un abisso senza fine. Miike ritorna nelle stradine più periferiche di Tokyo, quelle di Dead or Alive, Audition - la stessa Audition a cui i due amici prenderanno parte per partecipare al Breaking Down - o Rainy Dog. Dove è il dramma familiare, prodromo di un sentimento di rabbia comune, a divenire motore di tutto: dalla caduta nelle viscere della disperazione alla rinascita più scintillante, illuminata dalle sfavillanti luci del ring. 

“Can’t you see there’s life in him yet”, le parole del coach che osserva combattere per la prima volta Ikuto. È dagli occhi, che si intravedono tra i guantoni da boxe, nei movimenti soppesati e il respiro controllato, che scorre la voglia di rivalsa del giovane fighter. Un volto granitico, che sembra fondere la ferocia repressa di Shishido Jo – la prominenza della mascella di Yoshizawa Kaname che ricalca la fisionomia del grande attore giapponese - in La Giovinezza di una belva umana di Suzuki Seijun e la urla di ribellione di Joe in Ashita no Jo (Takamori Asao e Chiba Tetsuya), quello di Ikuto, inamovibile nelle sue decisioni. “I saw it in your eyes” dirà alla fine del film, rivolto a Ryoma, confessandogli un segreto che l’amico aveva cercato di tenergli nascosto fino a quel momento. La vita che scorre attraverso gli occhi, tra i dettagli di Miike che ne cattura gli sguardi, e la forza dei personaggi che ne sanno cogliere l’essenza. Quelli di un figlio, che percepiscono il cambiamento di una madre, divenuta più forte e risoluta, forgiata nelle difficoltà. Quelli di un padre, che si uniscono agli occhi del figlio nei riflessi di un vetro: “I’m fighting”. Combattere per tornare a vivere, accettare l’ostacolo per trasformare il proprio corpo in qualcosa di più. Plasmarlo per resistere ai colpi di uno yakuza d’altri tempi, uscito direttamente dalle pagine di un manga degli anni 80 – i biker che sfrecciano tra le strade di Tokyo come in Akira (Ōtomo Katsuhiro) – per prepararlo al mondo che verrà.

Corpi in prima linea, a difendere gli ideali. Tornare a scoprire come Miike sia sempre stato un regista politico, schierato senza mai risultare didascalico. Le immagini che dialogano con noi prima di ogni cosa, prima di ogni slogan urlato da uno dei personaggi. Attraverso i colpi nell’ottagono che scandiscono la rivolta, l’ipertrofia dei combattimenti nel sottosuolo di Tokyo che assurgono a manifesto di una rabbia generazionale, a simbolo di un’incomunicabilità radicata nel retroterra del popolo giapponese.
“The journey to my future begins now”, nulla è perduto, bisogna combattere.

Autore: Emanuele Polverino
Pubblicato il 15/03/2025
Giappone 2025
Regia: Takashi Miike
Durata: 120 minuti

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