Regista in qualche modo atipico nel panorama del cinema coreano contemporaneo – che predilige in larga misura il genere e un’estetica immediata e di puro impatto visivo – Hong Sang-soo si è imposto da alcuni anni a questa parte come uno degli autori asiatici[1] più vicini e sensibili allo spirito del cinema francese degli anni Cinquanta e Sessanta, e nello specifico all’estetica rohmeriana. I continui riferimenti all’autore di La mia notte con Maude e Il ginocchio di Claire, e più in generale a modalità rappresentative di diretta emanazione modernista, hanno prodotto da un lato la crescente popolarità del regista in ambito festivaliero e in particolare in terra francese, dove ha trovato negli anni sempre più sostenitori, e dall’altro però una certa miopia (e diffidenza) critica che lo ha etichettato (e ridotto a) “semplice” erede/figliastro di quella stagione cinematografica.
Malgrado i tanti elementi che nel suo cinema tornano con regolarità (zoom, inquadrature statiche, la predominanza della parola sull’azione, gli incroci amorosi, i giochi del destino e del caso) a denunciare (e confermare) le evidenti influenze del cinema della Nouvelle Vague, l’opera di Hong Sang-soo è, al contrario di quanto sembra, tutt’altro che nostalgica o derivativa, ma soprattutto in costante e sottile evoluzione, sempre apparentemente uguale a se stessa eppure al contempo differente. Anno dopo anno, film dopo film l’autore coreano si è spinto sempre più verso una forma essenziale e personale, in una sorta di tensione verso la trasparenza[2] che trova nel suo ultimo In Another Country (presentato nel 2012 nel Concorso del Festival di Cannes) l’approdo forse definitivo.
Rispetto alle opere della prima parte della sua carriera, caratterizzate da un’architettura narrativa che prevedeva il costante ribaltamento delle situazioni (esemplare in questo senso Conte de Cinéma, opera meta-testuale nettamente divisa in due parti) ed il rovesciamento delle prospettive, gli ultimi tre film sembrano seguire una struttura diversa, aperta come sempre all’irruzione (naturalmente solo apparente) del caso ma frantumata in molteplici pezzi che faticano – o forse sarebbe meglio dire “resistono” – a farsi organicamente coerenti, a ridursi a parte di un tutto predeterminato e composto. Da Oki’s Movie in poi i giochi di simmetria e rimandi interni lasciano il posto al caos, ad una sorta di eterno ritorno differenziale che inchioda i personaggi a ripetere/(ri)vivere molteplici volte il medesimo frammento di vita senza mai riuscire a trovare una via di fuga, una soluzione all’impasse. Questa sorta di sfiducia nei confronti della macchina cinema risulta particolarmente chiara nella sua ultima fatica, oggetto della presente analisi. Qui i personaggi non solo smettono di illudersi di poter trovare il proprio posto nel mondo ma sono presentati già in partenza come il prodotto di una finzione, creature partorite dalla mente di una ragazza che, per ingannare il tempo di un weekend consumato insieme con la madre, scrive tre piccole storie che hanno per protagonista una donna francese di nome Anne. Il paese straniero del titolo è dunque la Corea, vissuta dalle tre donne di volta in volta come una meta turistica o luogo d’incontro fugace con l’amante.
In ciascuno dei tre episodi la protagonista viene filmata nel momento in cui si affaccia per la prima volta sul set e poi lungo il periodo di permanenza. Ad una serie di elementi che ritornano e che producono una continuità tra una storia e l’altra (l’albergo, la cameriera, il bagnino, la spiaggia, la tenda, l’ombrello) ce ne sono altri che differiscono (i personaggi di contorno, il tempo climatico, i caratteri dei protagonisti). Dentro questa struttura abitata dalla ripetizione s’impone lo scarto, la differenza tra un’esistenza e l’altra, gli atti mancati, i desideri frustrati. Il terzo episodio svolge in questo senso una funzione diversa rispetto ai primi due in quanto sintetizza ed esplicita buona parte delle tensioni più o meno sotterranee che attraversano gli altri frammenti (l’attrazione del regista del primo episodio per Anne, la complicità tra Anne e il bagnino, il desiderio di fuga di Anne). Questa sintesi risulta però “impossibile” poiché a dominare sembra essere come sempre una mancanza. Come notava giustamente Lorenzo Esposito dalle pagine di Filmcritica di qualche mese fa, il tentativo di far rinascere il cinema della ragazza che scrive le tre storie passa attraverso la scoperta che «[…] forse il cinema è la storia di quello che gentilmente viene smarrito […] e che gli incastri sono altrettante perdite».[3] Così ad ogni piccola conquista quotidiana (il sesso con il bagnino, la passeggiata romantica con il regista, l’incontro con l’amante) corrisponde contemporaneamente una rinuncia o una delusione e alla fine il bilancio è quasi sempre negativo (il faro, così come l’amore, rimane una chimera).
La lezione straordinariamente democratica e matura di Hong Sang-soo è quella di configurare un cinema che accetta serenamente gli imprevisti della vita e per questo aperto alla variazione. Così il suo cinema sempre lieve, leggero, per qualcuno persino effimero, non ha più bisogno del meccanismo, e quando se ne serve lo fa in modo chiaro, “trasparente”. La scelta di trasferire sulla ragazza la paternità delle storie va nella duplice direzione di smentire quella visione misogina che molti critici gli hanno sempre attribuito e dall’altro di rendere manifesto lo statuto finzionale della propria opera, in modo tale da riflettere sugli stessi meccanismi che producono un film. Così facendo Hong Sang-soo mostra il momento in cui si produce un’idea riuscendo, al contempo, ad ironizzare sull’atto stesso della creazione. La ronde infinita di incontri e d’amore che da sempre caratterizza la sua opera diventa qui gesto liberatorio contro la malinconia del presente, un atto di resistenza contro il tempo, la manifestazione più pura di un’idea di cinema che attribuisce la stessa importanza alle immagini e al pensiero che le sottende e le ha prodotte.
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[1] Insieme a lui impossibile non citare il malese (ma taiwanese d’adozione) Tsai Ming Liang.
[2] O per dirla con le parole di Giona A. Nazzaro: «[…] Verso un evidente disimparare il cinema». Elogio di Hong Sang-soo, Filmcritica 625/626, p. 264
[3] L. Esposito, Estinzioni, Filmcritica 625/626, p. 256.