Rimetti a noi i nostri debiti
Favola nera dei nostri tempi che si concede un po’ di spassosa ironia ma alla fine lascia in bocca un sapore amarissimo
Quello di Antonio Morabito (Carrara, 1972) è un cinema di argomenti solidi: patriarcato e tensioni familiari (Cecilia, 2001), politica, storia, anarchia (Non sono l’uno per cento – Anarchici a Carrara, 2007), disabilità (Che cos’è un Manrico, 2012), corruzione in ambito sanitario (Il venditore di medicine, 2014). Fino a Rimetti a noi i nostri debiti, favola nera dei nostri tempi che si concede un po’ di spassosa ironia ma alla fine lascia in bocca un sapore amarissimo.
Claudio Santamaria - già protagonista del penultimo lungometraggio di Morabito - è Guido, il personaggio chiave intorno al quale il regista costruisce il nucleo della tensione drammatica che domina il film: da un lato la necessità di salvare se stessi e tenersi a galla sempre e comunque accettando qualunque compromesso, dall’altro l’impossibilità di rinunciare completamente al proprio senso non solo di moralità e giustizia ma, più in generale, di umanità. Il dilemma è tutto qui: se la posta in gioco è davvero alta, quanto si è disposti a perdere della propria integrità?
Guido è un ex tecnico informatico finito, come tanti altri, sul lastrico dopo il fallimento della ditta per la quale lavorava. Non ha più soldi per le bollette, per l’affitto e neppure per bere un ultimo bicchiere al bar sotto casa prima di affrontare un’altra notte di solitudine. Ma almeno ci sono le occhiate comprensive della cameriera a consolarlo e le chiacchiere del “Professore”, suo unico amico, che lo distrae con le sue teorie politiche - neppure tanto bislacche - snocciolate con appassionata convinzione intorno al tavolo da biliardo. Ad ogni palla corrisponde una nazione e a finire in buca, afferma lui, sono sempre gli stati economicamente più deboli: la Grecia, il Portogallo, l’Italia ovviamente. E questo, certamente, nessuno lo sa meglio di Guido considerato cosa gli sta accadendo.
Le cose cambieranno – in peggio? – quando il protagonista verrà aggredito dai suoi creditori e capirà di non avere altra scelta che lavorare gratuitamente per loro, fino a saldare il debito. Cosa dovrà fare? Semplice, quello che loro hanno appena tentato di fare con lui: riscuotere crediti. A formare Guido, direttamente sul campo, sarà Franco, un Marco Giallini comicamente sopra le righe, sgradevole, volgare, indisponente e a tratti perfino un po’ sadico. C’è tutto un mondo da conoscere: ci sono i poveracci come Guido, ma c’è anche chi invece potrebbe pagare e fa il furbo, o così sembra. E c’è tutta una tecnica che bisogna padroneggiare: prima di arrivare alle maniere spicciole bisogna tormentare, stalkerare e umiliare, con perseveranza e spietatezza. La necessità di arrivare a fine mese avrà la meglio sull’imbarazzo, sulla vergogna e sul senso di colpa, e il protagonista - con gli occhi pieni di rancore e diffidenza - dovrà seguire fedelmente le orme del suo divertito, spavaldo mentore. Ma fino a quando?
Franco e Guido sono le due facce di questo presente, le due scelte possibili, le alternative che si escludono a vicenda. Tuttavia nessuno dei due rappresenta un assoluto. Il primo ha fatto una scelta netta, ma per blandire i (fin troppo deboli) sensi di colpa ricorre, pateticamente, alla confessione in chiesa e lusinga il suo ego con le auto nuove, il panorama alla finestra e il viso giovane – ben più giovane del suo – della bionda moglie straniera. Il prezzo di tutto questo è la quotidiana consapevolezza della propria banale mostruosità. Ci si può convivere? A Guido piacerebbe poter pensare di sì, ma sa che – come dice il Professore – per stare nel sistema, bisogna avere un po’ di sistema dentro di sé.
Per Franco è facile, perché prova un piacere sottile e inebriante perfino a prendersi gioco di una semplice cameriera, stropicciandole sotto al naso, con gusto, un’allettante banconota. Ma la stessa banconota, in mano a Guido, non fa lo stesso suono: perché lui - che tuttavia non è un santo né un eroe - in fondo (e per fortuna!) non riesce a rinunciare alla propria umanità, e prova soltanto un profondo, nauseante disagio. Eppure tenta e ritenta, lotta contro se stesso, chiude gli occhi per non vedere: se è questo che richiedono i tempi in cui vive, deve dimostrare di essere all’altezza. Oppure no?
La fluida regia di Morabito lascia molto spazio agli attori-personaggi perché si raccontino e raccontino i propri ruoli, ai quali aderiscono forse senza rinnovarsi – Santamaria sempre ombroso, compresso, malinconico e Giallini sempre beffardo, volitivo, pungente – ma tuttavia senza sbavature e indecisioni. Funzionano bene anche i personaggi di contorno, la cameriera Rina - amore perso per un soffio - e il Professore, spirito nobile smarrito tra grettezze e volgarità.
Lucida fotografia di un presente davvero desolante, Rimetti a noi i nostri debiti è un film in grado di parlare a un pubblico ampio mantenendo intatta la sua dose, non indifferente, di causticità e soprattutto il suo valore di critica sociale. Il suo linguaggio è piano, disinvolto, limpido, senza vezzi e l’ironia che lo permea è corrosiva, perché non blandisce, non edulcora e non concilia, come è giusto che sia.