Speciale MUBI/ Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti
La nuova cinefilia, MUBI e Apichatpong Weerasethakul: come problematizzare le possibilità del desiderio di fronte all'immanentismo digitale.
Secondo Malte Hagener una delle differenze tra la cinefilia classica di stampo francese e la cinefilia digitale scaturita dall’erosione del luogo cinema riguarda il ruolo giocato dal trascendente nel desiderio. Se nel caso della cinefila classica l’esperienza era legata a un luogo fisico che univa le singolarità in una rete trans-soggettiva e le metteva in dialogo, nel caso della cinefilia digitale il rapporto con il cinema ha incontrato la progressiva caduta delle logiche binarie costituite da soggetto e oggetto, percepito e percettore, interno e esterno, a causa della penetrazione pervasiva delle immagini. Nell’esperienza della sala cinematografica il desiderio cinefilo soggettivo veniva reinquadrato da un trascendente in grado di mostrare sempre uno scarto tra individui e collettivo, vita e film, una distanza tra vita e rappresentazione, uno spazio che appunto mediava l’assoluto desiderio cinefilo di assenza di distanza, la volontà di rendere la vita un film; nel cinema della nebulosa presenza digitale invece questa distanza è stata annullata, grazie alla scomparsa di un “più grande” istituzionale, all’assoluto immanentismo dei media e all’impossibilità di pensare al di fuori di essi, e al desiderio si è aperta una possibilità, un’inaspettata porta verso il proprio compimento, quella di una “coscienza mediacinematica” (per Patricia Pisters) secondo cui tutto è film anche se non si è in sala: al tempo dell’”immagine mediatizzata in noi e della nostra immanenza in queste immagini” vita e film sembrano avere la stessa sostanza. A cavallo del cambiamento dei supporti per il cinema e della ridefinizione delle sue coordinate è avvenuto quindi un riposizionamento delle possibilità del desiderio cinefilo – che si è visto prima contrastato da un trascendente istituzionalizzato e poi invece liberato dall’assenza dello stesso trascendente - e conseguentemente delle pratiche legate ad esso.
Secondo Hugues Perrot e Vincent Poli, scomparsa la pratica teoretica della sala, infatti, la pratica della cinefilia ha assunto le forme della continua conferma di questo nuovo desiderio illimitato, e quindi le istanze di una “ricerca del film capace, con arguzia abbagliante, di fare in modo che il cinema non sia solamente la rappresentazione della vita ma la vita stessa, per citare Bazin”. Sempre secondo loro, questa ricerca dello sguardo cinefilo assomiglia all’incontro con il corteggiatore e allo sguardo della tigre di Tropical Malady di Apichatpong Weerasethakul, un sovrapporsi di eccitazione per ciò che si può trovare e paura per ciò che si potrebbe perdere. Per chi scrive però è soprattutto nei confronti di uno dei film successivi del regista che questa ricerca pratica della cinefilia digitale si è indirizzata: Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti ha molte caratteristiche per essere manifesto del desiderio cinefilo, perché sembra porsi in linea con l’idea di un cinema esoterico in grado di portare alla luce un regno senza distanze, un mondo delle molte vite e delle immagini, uno specchio delle illusioni in cui bagnare i corpi. Quale posto migliore, allora, della neonata Videoteca di MUBI (una giostra per il gioco illimitato del desiderio e per la sua pratica) per guardare questo film e confermare con i propri occhi il pacifico ricongiungimento delle immagini in noi? Quale film migliore di questo per assistere allo sfondamento delle cornici dello schermo e assuefarsi della risorgenza delle immagini vitali, della vita più vita, del colore più colore, dell’immanenza senza fuori campo?
Ecco, guardare Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti su MUBI è di grande importanza, ma non per riconoscere nella piattaforma un luogo di elezione per la sua visione, bensì per accorgersi di quanto esso ne sia strutturalmente lontano: il film di Weerasethakul non conferma da nessun punto di vista la nuova pratica di ricerca del desiderio cinefilo, innescata dall’illimitata voglia di assenza di distanza tra vita e film, anzi. La sua principale operazione è proprio il disinnesco dell’immanentismo positivo della coscienza mediacinematica, mediante un immanentismo negativo intenzionato a ristabilire quel trascendentale-immanente che si era perso con il sorgere del digitale e della mediatizzazione delle immagini. Un percorso (parallelo a quello compiuto dal personaggio Boonmee durante il film) che permette di guardare di nuovo dopo che tutto è diventato sguardo; per prima cosa, in un mondo di immagini affermative, rivelando la fragilità, la non indipendenza delle immagini, la loro rimovibilità – e questo è l’immanentismo negativo, ribaltamento dell’immanentismo positivo, affermazione di una realtà per rimozione. Attraverso la costruzione di immagini che sempre presentano inquadrature e geometrie inquadranti al loro interno, Weerasethakul produce un segno testuale (l’immagine di uno schermo che esiste nel campo) che richiama un segno extra testuale, quello della sala: il segno testuale aggancia l’immagine a un contesto preciso, a un luogo di appartenenza, e quindi a un sostegno, a una causa d’essere, presentando di fronte agli occhi sempre composizioni plastiche che richiamano la sala per una certa tensione strutturale, come per un segnale di continuità e omogeneità architettonica, di linee prospettiche. Per questo, quando è eliminato il luogo cinematografico dalla visione del film, l’immagine denuncia un’assenza, la non presenza della sala, una discontinuità fisica: in contrasto con la deterritorializzazione del cinema nell’immanentismo mediale l’immagine qui contribuisce a una riterritorializzazione del luogo cinema.
Allo stesso tempo Weerasethakul disinnesca anche il concetto di corpo come simbolo immanente affermativo, rimuovendo i corpi, mostrando una carne che non è mai piantata nel terreno ma è sempre in transito. Da qui le presenze fantasmatiche o le presenze mostruose che come carta velina assorbono colore e poi si squagliano nelle pozzanghere notturne della foresta e della casa di Boonmee; presenze che dicono di una rimovibilità del corpo, di una non necessità o di una non credibilità, di una eccessiva stranezza, di un corpo che è irrilevante nel fantastico. Non è un caso che il culmine del percorso di Boonmee finisca in una grotta - ulteriore segno-sala - con il progressivo abbandono delle funzioni corporee da parte del protagonista - demolizione del corpo immanente - e l’ammissione di un mal funzionamento della propria vista: se prima il protagonista pensava di vedere perfettamente, e di comprendere il funzionamento della natura, giunto nel punto di comprensione della sua vita si accorge di non aver mai guardato davvero, e quindi comprende la fallibilità dei propri occhi. È qui che l’immanentismo negativo, questa tendenza a negare per affermare, a mostrare una rimozione, sfonda nella necessità di una provenienza altra, la consapevolezza di una presenza trascendentale: la reale immanenza contingente dell’immanentismo negativo rimanda all’esistenza di un mistero al di là che genera il qui e ora ma che si nasconde, non si può conoscere e non si può vedere neanche ad occhi aperti, se non si entra nella dimensione del credere.
Il trascendentale è l’esistenza di un segno extra testuale che sostiene un segno testuale, è una assenza che sostiene una presenza, è l’altro che permette questo; è qualcosa che va oltre al corpo, perché lo nega e lo rimuove o lo riprende con sé, oppure perché lo eccede, come una trasformazione che incorre quando si cerca di comprenderlo (fotografandolo per esempio, come nel caso di Boonsong, trasformato nell’essere che cercava di rendere intellegibile). Boonmee alla fine si accorge proprio dell’inutilità del conoscere e della necessità del credere, dopo che già era costretto a credere che le due presenze in casa sua fossero sua moglie e suo figlio. L’incontro con il trascendentale avviene più frontalmente nell’episodio centrale della principessa e del pesce: secondo un processo di avvicinamento continuamente rimandato al mistero, la principessa, prima circondata da vari schermi premonitori di distanza invalicabile, incontra poi uno specchio d’acqua che riflette in maniera illusoria il suo volto da giovane (ancora rimozione-eccezione del corpo) e da cui si palesa un pesce parlante; la loro unione sessuale rimanda alla possibilità di una trascendenza incontrata e creduta, senza possibilità di comprensione, come indica lo schermo di acqua non trasparente, bensì invalicabile, che diventa poi notte. Come si diceva sopra, la riscoperta del trascendente però non si limita all’attestazione di un invisibile, ma porta con sé il suo opposto. Se infatti l’obnubilamento mediale aveva reso nulla l’opposizione tra trascendente e immanente, sulla scorta di un’immanenza assoluta in grado di inglobare il tutto, il ritorno del trascendentale richiama un risultato visibile condizionato, cioè un immanente, che si esplicita in ciò che l’immanentismo positivo aveva soppresso: rielaborazione di una distanza, dello spazio in cui si vive come uomini nella natura. Lo spazio in cui stanno a galla gli esseri torna a emergere come crogiolo di spazi soggettivi che si intersecano in una trans-soggettività, risultato di una forza non manifesta che preme ai confini del reale e ne scolpisce i contorni.
Da un immanentismo negativo a una ristabilita contrapposizione tra trascendente e immanente: quella di Weerasethakul è una teoria che sfocia nella pratica, il percorso di un concetto che si fa sensibilità, universale che sta nel particolare; in questo senso un processo tragico, ma alla maniera orientale perché intendibile solo nello spazio trans-soggettivo, recupero dello spazio non come terreno trasparente di comunicazione (la comunicazione commerciale che sta attraversando la Thailandia verso la Cina) ma come spazio di distanza tra soggetti, tra detriti a mollo nella memoria della Storia (mito per riacquisire patrimonio storico contro mitologia dell’ideologia imposta). Lo sguardo che percorre il percorso è ridefinito, nasce di nuovo dopo essere usciti dalla grotta, tanto che rispetto allo sdoppiamento dei corpi dei protagonisti nel finale non c’è dislivello. Si crede alla presenza di un invisibile che produce un visibile sempre sul punto di essere rimosso, secondo la legge di una continua contrazione del desiderio e non di un progressivo ingigantimento delle sue possibilità. Perché il desiderio sta nel tempo futuro (tempo dell’altro, tempo dell’attesa) di un reale che può scomparire e non nella continua presentificazione del soddisfacimento di una realtà mediata; riposizionare la tensione trascendentale nel desiderio riporta lo sguardo in una posizione di scoperta e dialogo, in un momento dove la pressione del nulla sulla carne spinge a vivere.
Tornano in mente le parole di Martin Buber: "Può accadere che, nella penombra di una sala da concerto, tra due ascoltatori che non si conoscono ma che percepiscono con la stessa purezza qualche nota di Mozart, si stabilisca un rapporto dialogico, appena avvertibile e tuttavia elementare, e che già da tempo sarà sprofondato nel nulla, quando si riaccenderanno le luci." Al cinema solo il buio accende la luce.