Aurora, un percorso di creazione
Nell'indagine intimista del retroscena performante, la svolta autoriale della drammaturgia diaristico-documentaria del regista Cosimo Terlizzi
[…] Il lavoro sulle parti invisibili è tanto importante quanto quello sulle parti che sono poi offerte allo spettatore.
L’invisibile è tutto quanto precede il debutto e che nella rappresentazione finale non è più presente, semplicemente perché fa parte di quella fase incubatoria del training … della costruzione della ‘prova’, che è presente, ma invisibilmente metabolizzato […]
(Giovanna Zalonghi. La regia teatrale nel secondo Novecento )
È proprio questa minuziosa indagine del retroscena performante, imprescindibilmente umanista, a segnare una svolta nel lavoro drammaturgico del diario-documentario di Cosimo Terlizzi .
Sperimentatore eclettico della contaminazione tra le avanguardie visivo-mediali, l’autore dell’intenso L’uomo doppio (2012) devia dall’esclusività del proprio sé attoriale, protos e anti - agonistès insieme, per continuare ad esplorare l’orizzonte dell’invisibile cosmogonico attraverso l’osservazione partecipata del percorso collettivo di formazione di un team di atleti di Goalball (disciplina paralimpica per ipovedenti), preliminare allo “spettacolo – pratica”, Aurora, dell’artista concettuale Alessandro Sciarroni . Terlizzi e Sciarroni, come un Giano bifronte, divinità custode del mutamento, di ciò che ha una fine e un nuovo inizio, sguardi unidirezionali, eppure complementari, rivolti all’interiorizzazione emozionale e all’esteriorizzazione spettatoriale.
Nel suo Aurora, un percorso di creazione Terlizzi si immerge in uno spazio linguistico che non è più solo la proiezione virtuale, la messa in scena ideale dell’Io, ma è una vera e propria dimensione del percepire e percepirsi nella vita, in una amplificazione, che prescinde dal ridursi a surrogato del senso, esclusivamente fisiologico, del vedere e del sentirsi visto. I pretesti per la riconsiderazione del concetto di visione soggettiva e pur sempre condivisibile, sono le fasi di casting e training cinestetico. Nella quotidianità insospettabile di fasci di luce sfocata nel tunnel di un metrò, è già la prima metafora, cui segue la descrizione di una eclissi da parte di uno dei giovani protagonisti, a darci la misura della graduale perdita della vista; ma è già anche al suo cospetto, il nuovo bagliore primigenio: il regista teatrale, maieutico testimone, discreto e pur coinvolto.
L’obiettivo contempla l’in-sorgere di uno stato nascente, aurorale appunto, che nel suo incedere gestazionale muove dalla fluidità magnetica del corpo, del corpo cieco, quale medium e logos stesso sulle radici del sentimento, verso il disvelamento di un paesaggio interiore, ricchezza sconosciuta, dono.
Nell’impostazione laboratoriale di contaminazione (si veda ad es. la danza Butoh) l’epica corporale e la poetica dello spazio, così come la tecnica come direttiva e l’etica come guida, quasi rievocano il metodo Grotowskiano, che aveva il proprio cuore propulsore proprio nella fase d’esercizio, funzionale alla comprensione del rapporto tra impulso-azione-gesto. La lezione del famoso regista polacco vuole infatti che la creazione, che è intimamente ricordo, scorra dentro il corpo, impulso sottopelle, così che nell’atto creativo la memoria dell’impulso si trasformi. (Ri)nascita che trasforma, “cambia le regole del gioco” … esistenziale.
Emerge, allora, prorompente un sovversivo registro percettivo, che porta a dire “Il movimento è il respiro”, “sentite la luce”, “la luce tocca”. Attraverso la polifonia del diario di confidenze personali e riflessioni autoriali, si apprende che l’udito vede luce e oscurità, giorno e notte, scandendo i gradi il frastuono; che l’intuizione sente i colori; che il corpo è una sorta di memoria di celluloide, impressionabile, anche quando ha poco visto, un archivio di sensazioni – immagini del mondo, capace in extremis di dar vita ad un modo proprio di immaginare e creare ricordi, libero dalla stereotipizzazione dell’imitazione: irriproducibile aura radiante. Risalire a questa (im)materialità sensibile, embrionale, è il fil rouge che accompagna la selezione del cast di atleti–performers, puntando alla loro formazione sinergica come ad un primo traguardo libero, svincolato dalla contingenza del debutto teatrale, momento che costituisce di per sé approdo ed incipit di una ulteriore evoluzione, il divenire fondamento della costruzione scenotecnica.
Perché l’opera di Terlizzi è la lettura personale, compiuta e autosufficiente, di un passaggio, una tappa che è una meta, all’interno della trilogia parateatrale di Sciarroni sulla decontestualizzazione spazio-temporale di differenti matrici coreografiche. Per questo l’osservazione documentaria si arresta prima, sulla soglia delle prove in sala, su palcoscenico, non invadendo quello che, precluso allo spettatore cinematografico, resta esperienza esclusiva dello spettatore teatrale, ovvero la compresenza empatica di corpi non attoriali e pubblico atipico, la loro comune esperienza di propriocezione straniante.
Nel rappresentarsi come una eco, diegeticamente citato e presente nel fuori campo delle interviste e delle comunicazioni logistiche, Terlizzi campeggia nell’economia narrativa prevalentemente come sguardo al lavoro di ripresa e montaggio, cedendo un’unica volta al virtuosismo programmatico di un gioco di specchi alle spalle del regista teatrale che sta intervistando, per cui riflesso, mentre gli è interlocutore frontale, ci appare alter ego estetico parallelo. E come non riconoscerne la firma originale nell’inquadratura sospesa e astratta della ragazza, che assorta, pettina la sua chioma bionda, col gesto soave delle braccia ...!