Folder

È oramai da tempo che si discute della tirannia della visione e della sua dispotica supremazia nei confronti del reale, come è luogo cinematografico consolidato e indagato la pornografia (nel senso più dimostrativo del termine) che l’ossessione scopica può significare. Dibattito più recente – sebbene in netto ritardo rispetto a quanto di pratico già da decenni si stava consumando nel cinema – ha investito gli home movies, le opere amatoriali e la loro valenza, prima ritenuta strettamente documentaristica e antropologica e oggi invece innalzata (laddove meriti) a opera tout court. Su queste stesse pagine recentemente – nella ricognizione di Tommaso Di Giulio sull’interessante Chronicle – i percorsi appena enunciati hanno trovato una disanima attenta che li ha visti confluire in un unico luogo d’indagine. D’altronde l’uomo contemporaneo vive – ed è oramai assuefatto – della sovraesposizione scopica, della pornografia dell’immagine e dell’ultrapersonale. Manifestazioni come Facebook – il massimo del personale esibito nel luogo più pubblico al mondo – ne sono consolidata riprova; come pure terabyte di video caricati dagli utenti su YouTube che mostrano come le persone oggi spesso preferiscano immortalare un accadimento a loro caro piuttosto che viverlo direttamente. Uomini e donne che aggiornano il loro status sui social media nei momenti più intimi, registrazioni di interi concerti eseguiti da chi ha preferito immortalarli anziché gustarseli. E gli esempi potrebbero continuare a centinaia, ma è inutile dilungarsi su un atteggiamento sociale conosciuto a tutti.

Oggigiorno gli home movies stanno vivendo quel dibattito che per i primi 50 anni della sua esistenza ha investito il cinema stesso: arte o spettacolo? Arte o documento? Per nostra fortuna la velocità dei tempi che viviamo torna utile in molti campi e simili quesiti si stanno velocemente risolvendo nella più evidente delle maniere, attribuendo agli home movies le stesse potenzialità delle altre forme sui 24 fotogrammi al secondo. Rilanciando ancora, gli stessi home movies stanno caratterizzando uno fra gli scontri dialettici e artistici più interessanti di questi anni (sebbene poco noto), e simili discussioni pongono sempre nuova linfa a questo genere. A tutte queste domande – e spostando sensibilmente avanti i relativi margini artistici e critici – risponde Cosimo Terlizzi con il suo Folder, vero e proprio manifesto dell’autobiografia filmica, dello statuto visivo, della pornografia della visione e dell’eccesso di intimismo creato per fini pubblici. Folder è infatti il diario di viaggio audiovisivo che Terlizzi (pittore, performer, video artista e qui regista) ha realizzato fra il 2008 e il 2009 – nulla di più simile al diario cartaceo, ma realizzato con qualsiasi supporto audiovisivo, dalla telecamera al cellulare fino ad arrivare a fotografie e Skype.

Folder è una cartella (come da titolo) informatica, l’aggiornamento odierno dei diari di viaggio, della vita dell’autore. L’analogico sostituito dal digitale per queste nostre vite sintetiche. È la de-realizzazione di una vita, tradotta in pixel ancor prima di essere innalzata ad opera artistica. È la traduzione in gigabyte dei nostri amori, sofferenze, aspirazioni e interazioni sociali. È il lavoro di montaggio di una vita piana e lineare. È l’ostacolo fra un corpo e un altro, una telecamera che impedisce un abbraccio: fastidiosa tanto quanto di profondo interesse. È pornografia perché non si ferma davanti ad un suicidio o a delle foto di un amplesso che dovevano rimanere segrete; che senza pudore non ha remore ad entrare nelle stanze d’albergo dei protagonisti, mostrare uso di droghe o docce romantiche, abbracci al mattino appena svegli o backstage di fiction in cui Terlizzi vi si è trovato quasi per caso.

Folder è definitivamente il nuovo, una forma autobiografica che si spinge – e spinge noi tutti – ben al di là di quanto avevamo inteso per “autobiografico” fino a ieri. È l’autobiografia ai tempi del Grande Fratello e della nostra volontà di iper-rappresentazione, iper-mediazione e scomparsa dell’ambito privato. È volgare, sussurrato, puro e depravato. È la bellezza dell’esistente – dall’antropologico al teorico, dal filosofico al sociale – racchiuso in uno sguardo che dà sul baratro dell’io. È un’opera fondamentale e fondativa, che occorrerebbe visionare non fosse altro perché spinge la nostra astrazione dal reale (pur urlandone la presenza) verso lidi ancora insondati dai più. E non è poco.

Autore: Emanuele Protano
Pubblicato il 30/12/2014

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