It Follows / L'occhio scheggiato vede la Cosa
Il film di Mitchell traccia una fenomenologia dell’horror post-carpenteriano, dove vige un clima di radicale sospetto nei confronti di tutto ciò che è altro.
Sfogliando un ipotetico atlante del cinema horror, It Follows si situerebbe a metà strada tra L’Invasione degli Ultracorpi e le soggettive di Halloween, tra le derive teoriche di Scream e i demoni sotto la pelle di cronenberghiana memoria. Ma il punto zero di questa riflessione si trova nel finale terribilmente aperto de La cosa di John Carpenter, testo filmico fondamentale per un autentico cinema del sospetto.
All’interno di una base scientifica, situata nel cuore congelato dell’Antartide, due sopravvissuti, a rischio assideramento, si scrutano diffidenti. Riecheggia subito il mantra terrificante del film: «Qui tra noi c’è qualcuno che non è quello che sembra». Ogni sguardo si carica di una luce aliena e mostruosa, di una rivelazione che non si dà, ma è sempre intuita, attesa, perfino negata, rimandata oltre la fine stessa del film. Il capolavoro di Carpenter, pietra miliare del cinema horror, ci ha lasciati orfani di un eroe, ha scheggiato il nostro occhio, scuotendoci dal pigro, rassicurante torpore di un’ipotesi identitaria. Nell’impossibilità di attribuire uno statuto certo allo sguardo, è vacillato qualsiasi viaggio dell’eroe, qualsiasi meta, qualsiasi presa di posizione più o meno esplicita. Ogni campo dichiara guerra al controcampo per legittimare la propria (s)oggettività.
Il finale de La cosa rappresenta una vera e propria battaglia tra immagini, uno scontro che non conosce alcuna possibilità di sintesi. Viene a mancare – e non è poco - l’empatia, a favore di un dubbio inaccettabile che mina i fondamenti stessi della visione. Il due diviene così il numero di una lotta identitaria, alimentata da una totale sfiducia nei confronti dell’altro. Il mondo crolla perché impossibilitato a scoprire il vero volto della seconda persona.
La cosa è tra loro, la cosa è uno di loro. O ancora di più: la cosa è l’occhio che guarda, quindi la cosa siamo noi.
Quest’impercettibile, osceno mutaforma, quest’essere alieno capace di cambiare pelle ha contaminato una volta di più il cinema dell’orrore. Il risultato è che la visione ha cessato di essere attendibile. Il famigliare, tutto d’un tratto, si è fatto sconosciuto.
Il secondo film di David Robert Mitchell parte più o meno da qui. Eppure lo fa all’interno di un genere, il teen-horror, inteso come romanzo di formazione, testimonianza di un cambiamento, scoperta di un elisir. It Follows è infatti la storia di un varco, narrazione del momento di passaggio tra infanzia e età adulta. Il portale è ovviamente il coito.
Il sesso genera una crescita, un distacco, una dissociazione del sé, un cambiamento epistemologico ma, soprattutto, una radicale svolta percettiva. Il problema è tutto qui: il mondo non sembra più quello di prima e, all’improvviso, manifesta l’altro del reale, il fantasma recondito nascosto sotto le superfici dell’immagine.
In una provincia americana che pare uscita da una fotografia di Gregory Crewdson, It Follows rintraccia il suo epicentro nella fobia sociale, nel clima di totale, vertiginoso sospetto nei confronti di ogni individuo che ci circonda. Si passa dall’essere parte del mondo a diventarne spettatori fobici.
Il film di Mitchell lavora su una fenomenologia dell’horror che, ripercorrendo un intero archivio cinematografico, finisce per tornare all’essenza del genere. Per farlo ha bisogno di saturare il déjà vu allo scopo di collegarsi alla sua stessa origine: quella dell’It Follows, per l’appunto, letteralmente ciò che segue. Mitchell indaga così la condizione (forse sarebbe meglio scrivere sensazione) fondativa di un intero immaginario: sentirsi spiati, inseguiti, osservati da lontano, scoprirsi continuamente in pericolo.
Lo spettatore, come Jay, la diciannovenne protagonista, sprofonda all’interno di un perturbante filmico che s’insidia lentamente senza lasciare mai la presa. Il cinema horror contemporaneo, sempre più alla ricerca dell’effetto o dello spavento facile, ha finito troppo spesso per dimenticare la paura dell’ignoto, la sensazione che l’altro – qualsiasi altro – sia in fondo un perfetto sconosciuto.
In realtà tutto It Follows potrebbe riassumersi in un semplicissimo plot: in seguito a un rapporto sessuale, una ragazza ha la sensazione di essere seguita da figure sconosciute. Niente di più semplice, niente di più spaventoso. Jay non vede doppio come la Kotoko di Tsukamoto, ma scova l’invisibile, scopre le insidie del mondo, intercetta gli spettri del reale. Questi spettri sono una diretta emanazione di tutte le paure della vita adulta. D’altronde l’orgasmo, che amplia la sfera del tatto, dà vita a corpi ectoplasmatici che, avanzando lentamente, ci vengono a prendere (alla stregua dei morti viventi di Romero).
Inoltre, come nei demoni cronenberghiani, il virus viene trasmesso per via sessuale. Il motivo per cui It Follows spaventa e inquieta è proprio perché sublima le paure del romanzo di formazione all’interno di un meccanismo orrorifico. Come a dire: il fisiologico diviene mostruoso, il naturale si fa deforme, il sesso viene oscurato da un atto necessariamente necrofilo. Il primo contatto con l’altro, l’unione fisica di due corpi, lo scambio di liquidi eiaculatori, genera immediatamente uno shock percettivo, una nuova fase dell’occhio e del cuore. Ogni altro si configura come pericolo sempre eventuale, continuamente in agguato. Addio all’innocenza, addio all’infanzia, addio al mondo: del resto l’orgasmo di Jay è già una (piccola) morte e tutto It Follows potrebbe essere letto come il risveglio improvviso in un mondo irriconoscibile, un mondo dove il sesso ha partorito dei mostri.
Non per niente ciò che viene trasmesso per via sessuale è un AIDS percettivo, inteso come possibilità di vedere quello che gli altri non vedono.
Ma l’aspetto più sorprendente del film è che, prima ancora di adeguarsi al punto di vista di Jay, Mitchell adotta lo sguardo dell’It Follows stesso. Conferma così che l’horror sia il cinema della soggettiva per antonomasia, il genere che polarizza l’occhio, rendendo ogni sguardo, ogni visione, ogni inquadratura, un potenziale omicida. Se si osserva It Follows si ha sempre la sensazione che non esistano oggettive, che ogni immagine provenga dagli occhi di qualcuno – assolutamente neutro, incognito, sconosciuto - che è sempre in agguato.
Come più di trent’anni fa avveniva per la cosa, oggi It follows è il cinema stesso. Il cinema che svela il suo essere intrinsecamente, strutturalmente stalker, tutto proteso a spiare di nascosto la povera teenager di turno. Ne è morbosamente attratto, vuole avvicinarsi ancora di più, nutrito dalle pulsioni scopiche che hanno legittimato la sua stessa esistenza.
Ma il cinema, inteso come soggetto vedente, è lo spettatore medesimo, che predando famelicamente le immagini, si trasforma nell’assassino potenziale della protagonista. Mitchell pare dire che l’identità dell’It Follows siamo noi, la presenza di uno sguardo che ci appartiene. Il nostro campo di visione è necessariamente, sbalorditivamente omicida. Jay (ci) osserva e (ci) teme, come conferma il finale del film: il sospetto si è fatto motore stesso della sua percezione, modus vivendi, struttura alla base di ogni visione.
Eppure, nel finale, la protagonista non è più sola: cammina assieme al ragazzo che l’aveva sempre desiderata. Avanzano tenendosi per mano, formando un perfetto condividuo, un essere unico dalla percezione condivisa. L’incubo viene trasmesso per amore come se, in due, si potesse vincere, addomesticare la cosa, edulcorare il male, normalizzare il fantasma. Perché l’orrore più grande, ancora una volta, è quello di rimanere soli.