Baskin
Film viscerale e lisergico, curatissimo per messa in scena e perturbante nella resa e nelle intenzioni
La parola turca Baskin è inquietante, si presta ad una molteplicità di significati con accezione negativa: impressione, repressione, compulsione, coercizione. Prepotente, predominante, improvviso. Attacco improvviso, come un raid, sembra alquanto calzante, perché al centro della storia c’è un gruppo di poliziotti turchi, per antonomasia brutti, sporchi e cattivi, a confrontarsi con qualcuno o qualcosa ben più brutto, sporco e cattivo di loro.
Baskin non è però un poliziesco, non un noir, non un thriller, non un crime movie, è un massacro, una mattanza, una macelleria turca se preferite, confezionata in ambiente onirico. Si parte con un bimbo svegliato da rantoli e mugolii dalla stanza accanto alla sua, rantoli di donna, sembrerebbe che la mamma se la stia spassando, poi di improvviso tutto tace, il bimbo si aggira smarrito nella penombra del soggiorno, spegne una tv a schermo bianco sintonizzata su demoniache frequenze, ed ecco che una mano infernale appare per ghermirlo, risucchiarlo in una stanza, forse la sua, forse quella della mamma. Dall’esegesi dell’opera si apprende che le falangi dovrebbero appartenere al Dybbuk, spirito maligno della tradizione ebraica, imprigionato in un altrove di non vita e perciò determinatissimo ad usare esseri viventi per collocarsi in un più consono aldilà. Il ricorso al dybbuk, alquanto abusato nella produzione filmica e teatrale radicata nell’humus yiddish, è ad opera di Can Evremol, regista ebreo turco che arriva al lungometraggio su eterostimolazione da parte di Eli Roth. Il Roth produttore è financo più pericoloso del Roth regista, spesso il suo nome è associato a pasticciacci al sangue, non in questo caso, qui l’Orso Ebreo ha avuto ragione nel finanziare lo sviluppo di un iniziale corto. Il bambino ghermito dicevamo. Il suo nome è Arda, lo ritroviamo sbirro in una sordida desolata taverna, tutta mosche e brandelli di carne marcia, a cianciare di sesso e scommesse con alcuni suoi squallidi commilitoni, bad cops, attaccabrighe e fascistoidi come da contratto. E’ notte, arriva una chiamata di intervento alla radio, la squadriglia parte sul suo van a lampeggiante acceso, Arda guida in uno stato di allucinazione progressiva verso una zona ignota, ominidi nudi gli si parano innanzi costringendolo a fermate impreviste, poi una creatura sanguinante sbuca dal nulla a centro strada, è incidente, il van precipita in un canale di scolo. I poliziotti escono malconci ma (ancora) apparentemente vivi, trattano in malo modo un branco di strani villici e deformi, si incamminano a piedi verso la meta. Rane, ovunque rane, rane striscianti o saltellanti, buone da mangiare, buone da pestare. Alla fine arrivano a destino, la chiamata è partita da un posto di polizia dismesso, che è, in altre più universali parole, una porta per l’inferno ad uso esclusivo degli uomini in divisa. Loro decidono di entrare, dalle loro parole apprendiamo che il motto della polizia turca è “Non abbiamo paura”, parole che suscitano ilarità, nel mondo reale sono infatti i civili e gli inermi cittadini a dover temere ‘sti impuniti in uniforme, loro invece dovrebbero proteggere e servire, non fare o avere paura, ma tant’è, questi si rincuorano sotto il talismano dell’ordine costituito e varcano le porte dell’inferno. Dentro, sangue, viscere, dolore, rane, putrìo. Le celle ospitano riti sacrileghi, larve umane sanguinolente si accoppiano o si mutilano per poi divorarsi, nei corridoi infetti risuona l’eco di un lamento simile ai mugolii di lussuria della madre dell’Arda bambino. Non c’è via d’uscita, i nostri (anti)eroi sono in trappola, giù negli scantinati, in the basement, incatenati e pronti al sacrificio, che è un’epifania. Lungamente invocato dai suoi mostri, si manifesta Lui, il Padre, il maschio alfa e omega, una sorta di incrocio tra Baby Killer ed Hellraiser, orco ottuagenario con lineamenti da neoaborto deforme, parla di un generico culto infernale ed intanto, diligentemente, comincia ad infierire sui poliziotti, coltello in pancia, coltello negli occhi, lingua in bocca, lingua nelle orbite svuotate. L’orrore, rarefatto, da una messa in scena arty che omaggia il Refn di Only God Forgives, l’orrore è l’impossibilità di capire il perché, se ciò avvenga per un crimine pregresso degli sbirri, se sia una manifestazione psichedelica di un senso di colpa, o se la colpa sia la professione poliziesca ontologicamente intesa. Rileva tutto e niente, nell’antro si compie il rito, la violenza è di maschi sui maschi, lo stupro e di maschi sui maschi, tutti vengono macellati, ne resta soltanto uno, Arda, che sogna in flashback e trova la chiave – letteralmente – per uscire dalla testa del boia. Che ce la faccia davvero, o che sia dannato, o che sia lui stesso un dybbuk, alla fine non è dato sapere. O forse si.
Film viscerale (ça va sans dire) e lisergico, curatissimo per messa in scena e perturbante nella resa e nelle intenzioni, Baskin è stato accolto benissimo dagli addetti ai lavori, che hanno azzardato, non a torto, il paragone con il sommo Martyrs di Pascal Laugier. Uno dei migliori film del 2016, e l’idea di usare esecrabili poliziotti come vittime sacrificali, ancorché uovo di Colombo, potrebbe aprire la strada ad un nuovo fertilissimo sottogenere, il Police Tortured Porn, con annesso spasso catartico.