In the Earth
Il ritorno al folk horror di Ben Wheatley si contamina, come di consueto, con generi e suggestioni differenti, conservando inalterato il mistero e il fascino del suo cinema
C'è qualcosa di profondamente magnetico nel cinema di Ben Wheatley. Qualcosa che acquista maggiore intensità proprio quando viene lasciato a briglia sciolta, meglio ancora se libero di esprimersi in situazioni proibitive (vedi la pandemia da COVID-19) e con un budget irrisorio. È impossibile, del resto, non pensare a un ritorno alle origini guardando In the Earth, l'ultima fatica scritta e diretta dall'autore inglese proprio durante il lockdown e presentata al Sundance Film Festival. Questo non solo per il gradito ritorno al folk horror del regista di Kill List, ma per una ripresa genuina dei temi e delle ossessioni a lui più cari.
Dopo anni passati tra cinema distopico, action puro e commedie amare, Wheatley torna infatti letteralmente alla terra, a quella Natura misteriosa e primordiale che ha da sempre reso perturbante e fuori scala il suo cinema. È da qui, da una terra misteriosa e da ciò che forse custodisce, che parte anche la vicenda di Martin (Joel Fry), scienziato in cerca della collega ed ex fidanzata Olivia (Hayley Squires), sparita nei boschi inglesi mentre lavorava a una ricerca volta a dimostrare l'esistenza di una rete neurale tra le piante.
Sfruttando le ristrettezze del lockdown come pretesto narrativo per delineare un mondo diffidente e distanziato, il cineasta parte così da una sorta di ultimo avamposto dell'umanità per inoltrarsi in un mondo oscuro e terribile, dove l'uomo è al massimo pedina di un gioco incomprensibile e ben più grande di lui. Un gioco che mischia le sue carte, quello in cui finisce Martin, che pare trovare le sue radici in un folklore precristiano fatto di rituali, sacrifici e possessioni. Soluzioni solo apparenti, però, perché forse, questa volta, il mistero va ben più in profondità dell'ennesimo incubo alla The Wicker Man, giù fino alle origini di una realtà intrisa di un orrore panteistico e quasi cosmico.
Tra suggestioni eterogenee, capaci di toccare, ancora una volta, generi differenti (dallo slasher all'horror soprannaturale, passando per la sci-fi) e riferimenti che più alti non si può (la pietra runica come il monolite di 2001: Odissea nello spazio), Wheatley costruisce un film dove scienza e soprannaturale si incontrano e si mescolano tra loro, con risvolti imprevedibili. Citando esplicitamente Arthur C. Clarke e l'adagio secondo cui la tecnologia più avanzata è indistinguibile dalla magia, In the Earth fonde così questi due aspetti, rendendo impossibile capire dove cominci l'uno e finisca l'altro. Una sorta di Il signore del male bucolico e psichedelico (con tanto di sintetizzatore diegetico smaccatamente carpenteriano, qui usato come mezzo per comunicare con l'ignoto), insomma, dove il regista di A Field in England mette in campo tutto il proprio armamentario allucinato, fatto di effetti caleidoscopici, sovrimpressioni, flickering e montaggio sincopato.
A uscirne fuori è un film ipnotico che nella sua unicità sa tenere assieme tecnologia e libri occulti, estetica gore e sequenze sperimentali. Niente di nuovo (soprattutto per Wheatley), certo. Eppure in questa fiaba allucinata nella terra di nessuno, dove la Natura fa prigionieri, li attira per non lasciarli più andare via, c'è l'essenza del cinema del regista inglese. Un cinema grottesco e crudele, che frustra le attese, accumula suggestioni ed esaspera i toni fino alla consueta esplosione finale.
Pura fantascienza, in fin dei conti, dove ci si chiede quale mondo resterà dopo (“La gente si ricorderà di tutto questo?”, si domanda un personaggio riferendosi alla pandemia in corso). E se la prospettiva di una Natura decisa ad assoggettare il genere umano sia, tra le ipotesi in campo, davvero la più terribile.