Già in sede di recensione parlammo di Blackhat come di un film ingombrante, di un’opera che resta e cresce nell’occhio e nella mente continuando ad offrire sollecitazioni ed emozioni. Michael Mann del resto è di per sé un regista ingombrante, un autore il cui studio porta l’analisi in territori di confine, tanto insidiosi quanto stimolanti. Parliamo qui di un cinema post-industriale che si fa avanguardia digitale, una restituzione del presente binario nei termini della fuga e dell’amore, dell’alienazione soffocante provocata da un sistema occlusivo e del potere cinematografico della liberazione, del ritorno al corpo in un lungo addio al mondo. Per ritornare e ritrovare sé stessi riflettendosi negli occhi dell’amato/a. Time is luck.
Il cinema per Mann è sempre più un modo per restituire la rarefazione del reale attraverso un lavoro sul dispositivo stesso, una dialettica che porta a confronto sperimentalismo e tradizione classicista, scrittura di genere e sua deflagrazione. Si cerca l’invisibile, l’azione al tempo della vita informatica, quasi fossimo in un cyberpunk di William Gibson dialetticamente diviso tra materia e spirito. E’ a tale ottica (post)organica che guarda il saggio di Alessandro Borri, ospite d’onore cui abbiamo chiesto di aprire questa copertina, inevitabilmente dedicata a Blackhat. A seguire Giulio Casadei affronta l’ambizione manniana di narrare e mettere in scena l’invisibilità diffusa che contraddistingue la nostra epoca, un tentativo inedito e mai così ardito di raccontare il presente coniugando tradizione e avanguardia digitale. Infine spetta a Germano Boldorini riflettere su quello che resta, dolorosamente, un punto fermo del film di Michael Mann, ovvero il suo forte insuccesso di pubblico. E’ inevitabile infatti confrontarsi con questo dato, specie in relazione ad un autore che ha sempre danzato con la macchina industriale hollywoodiana, piegandone le specifiche ai suoi scopi. Con Blackhat Mann pare veramente dire addio ad un sistema che in precedenza lo ha ospitato, un balzo in avanti non capito dal pubblico e sulla cui freddezza è necessario riflettere, portando a confronto la post-cinefilia contemporanea e le sue nuove necessità strutturali con il carattere profondamente liquido e rarefatto dell’operazione compiuta dal regista americano.
Nell’insieme un tris di sguardi per riflettere sul rapporto tra presente e cinema in relazione al sistema di pubblico che lo alimenta, solo uno dei tanti indirizzi che un film magistrale come Blackhat avrebbe potuto offrirci.
Buona lettura.