The Lost Themes of John Carpenter - Temi perduti per una generazione di nostalgici
Il ritorno del Re nel tempo della nostalgia, un'analisi musicale dei due Lost Themes regalati dal grande regista americano.
John Carpenter non ha mai voluto capitalizzare sul successo delle proprie creazioni, ha sempre amato rischiare, sperimentare. Avrebbe potuto diventare milionario dirigendo i sequel del suo successo commerciale più clamoroso, Halloween, ma ha preferito dedicarsi ad altro. Anzi, l’unico seguito della serie ha cui ha messo mano (il terzo, come sceneggiatore e produttore, tra l’altro sottovalutatissimo), non ha nulla a che spartire con i precedenti e si è difatti rivelato un bruciante flop.
A quasi settant’anni, impossibilitato ad ottenere finanziamenti per i suoi progetti cinematografici, rifiutato da un’industria che ha voltato le spalle a gente come lui e ad altri colleghi come Joe Dante e John Landis (la lista sarebbe molto più lunga), Carpenter deve essersi guardato in giro, annusando l’aria dei tempi. Sono gli anni della “nostalgia” rivolta agli anni ’80: il cinema e la musica attuali capitalizzano sul ricordo di un’epoca passata, sui suoi topos culturali, sui suoi simboli. Ma se il cinema resta un’industria in cui affermarsi è ancora molto arduo, dove i costi per produrre la propria opera sono ingenti, e dove bisogna scendere costantemente a compromessi con finanziatori (e aspettative del pubblico), la musica alternativa (rock, elettronica, inutile appiccicare etichette) ai tempi del world wide web e dei social è un magma in costante mutazione, dove chiunque (o quasi) può far sentire la propria voce. Ed è un business non indifferente, in cui non conta più la quantità dei dischi venduti, ma l’”evento”, il live, il festival, che conglomera migliaia di appassionati. Carpenter si è fatto furbo. Carpenter si è ricordato d’essere anche un musicista, ed è tornato al momento giusto.
Mai come nelle ultime stagioni musicali abbiamo assistito ad un ritorno così poderoso e invadente di sonorità elettroniche, così eighties, così vintage. Sonorità che Carpenter ha contribuito a creare, e soprattutto a far affermare.
Oggigiorno lo stampo di Carpenter è avvertibile ovunque: dalle colonne sonore cult di It Follows, a quelle firmate da Cliff Martinez per Refn e Soderbergh, per non parlare di altri sottoprodotti di genere come The Guest, Cold in July, ma anche l’ultimo Stranger Things, dove a farla da padrone sono synth e atmosfere passatiste.
L’influenza e l’omaggio a John Carpenter esula il solo ambito dello score per film ma comprende anche il mondo dell’indie rock: l’elenco di progetti musicali che si rifanno al sound del maestro dell’elettronica non può esaurirsi in qualche riga, e spazia dai Chromatics di Johnny Jewel ai Daft Punk, dai BEAK> di Geoff Barrow ai Son Lux. Il Carpenter-sound è ovunque. Al punto che Carpenter deve essersi stufato di vedere questi giovinastri arricchirsi alle sue spalle, decidendo di rimettersi in gioco. D’altronde se l’ha fatto David Lynch (con esiti non proprio esaltanti, a dire il vero) perché lui non avrebbe dovuto?
Annunciato, a sorpresa, un anno fa dalla Sacred Bones records (etichetta emblema della scena psych-noise contemporanea), Lost Themes è la prima raccolta di materiale inedito del Carpenter musicista dai tempi di Fantasmi da Marte (2001), nonché il suo primo disco in assoluto di musica non realizzata con l’intento di accompagnare delle immagini in movimento.
Campione di un elettronica minimalista e artigianale, Carpenter con gli anni ha avuto la saggia intuizione di farsi aiutare da un vero maestro del genere come Alan Howarth, che ha contribuito ad impreziosire decine dei lavori del regista. In Lost Themes, Carpenter (che, al solito, cura sintetizzatori, computer e tastiere) sceglie di farsi affiancare dal figlio Cody alla chitarra e da Daniel Davies come batterista, formando una vera e propria band. Il sound che ne esce è più eclettico e ricco rispetto alle storiche soundtrack che tutti conosciamo.
Lost Themes si apre con i ritmi marziali di Vortex, sorta di variazione sui sincopati del main theme di Distretto 13, ma prosegue poi su coordinate inedite: libero dagli obblighi legati al flusso narrativo, Carpenter lascia andare la sua musica in mille direzioni, tra refrain che si inseguono, cambi di ritmo, lunghe suite di prog-elettronica, oscura e coraggiosa. Se l’epica Obsidian è la quintessenza di questo sound rinnovato e all’insegna della sperimentazione (così come Domain), in cui trova spazio anche l’hard rock che caratterizzata le colonne sonore di Vampires e Fantasmi da Marte, nella secondo parte dell’album, in tracce come Wraith o la conclusiva Night sono di nuovo i synth a farla da padrone, refrain ossessivi ed algidi che riportano alla mente i lavori su The Fog o Halloween, Il signore del male, a metà via tra Tangerine Dream e Goblin.
L’album ottiene un ottima accoglienza critica, e gli fa seguito pure un ep di remix in vinile, curato da alcuni dei nomi di punta della scena wave-elettronica odierna: Prurient devasta Purgatory trasmutandola in un buio oceano di suoni noise da cui è impossibile ricavare una melodia, Zola Jesus aggiunge al tappeto sonoro di Night la drammaticità della propria voce, Blanck Mass riveste il gotico di Fallen con i colori di un funerario rave party, JG Thirlwell muta i connotati di Abyss in quelli di un successo eurodisco della passata decade, e via dicendo. Gli allievi rendono omaggio al proprio maestro, e il cerchio si chiude.
Adesso che Carpenter è tornato in pista è giunto il momento del passo successivo: a gennaio 2016 viene annunciato un secondo volume di Lost Themes, così come un lungo tour estivo, dove Carpenter esegue brani dei due recenti dischi assieme ai classici dal proprio repertorio di colonne sonore, e che parte non a caso dal Primavera Sound Festival di Barcellona, tempio dell’indie rock mondiale, mondano e “giovanilista”. Insomma, John Carpenter sta vivendo una seconda giovinezza, ed è di nuovo sulla bocca di tutti. Una rivincita non da poco. Anche se Lost Themes II, forse a causa dell’eccessiva rapidità con cui è stato scritto e distribuito, è un lavoro minore e più accomodante rispetto al precedente capitolo. Meno dark e apocalittico, meno libero: qui Carpenter sembra finalmente abbandonarsi a quel mood nostalgico che sta contaminando tutta la nostra cultura popolare, confezionando un disco che suona più o meno esattamente come ci si aspetterebbe da John Carpenter. Il minutaggio delle tracce scema al livello di quello di una normale forma canzone, mentre i rimandi al passato si sprecano.
La tensione dell’apertura affidata a Distant Dream ricorda quella di un onirico inseguimento, mentre gli eterei synth della successiva White Pulse ci riportano all’essenzialità del Carpenter prima maniera, così come l’incedere di Dark Blues non può non ricordare il main theme di 1997 – Fuga da New York. Il regista-musicista osa di più in composizioni come Bela Lugosi, che è quello che ci si aspetterebbe dalla colonna sonora di un film sui vampiri diretto da Nicolas Winding Refn, mentre l’ambient della conclusiva Utopian Facade (Vangelis rivisitato da Moby) solletica qualche interessante intuizione a cui potrebbe aprirsi un ipotetico Lost Themes Volume III.
Pur facendosi voler bene, Lost Themes II ci pare il fratello minore del disco precedente, probabilmente messo in cantiere per ricamare sulla rinnovata notorietà del regista cult. Così come ci pare un’operazione mossa più dall’attenzione al portafogli che da vera necessità, quella di registrare con la full band nuove versioni di alcuni classici (The Fog/Assault on Precint 13, Halloween/Escape from New York) del passato di Carpenter (in vinile edizione limitata e numerata, tanto per aumentarne il prestigio presso i collezionisti).
In conclusione il ritorno come musicista di John Carpenter ci sembra un’operazione astutamente sospesa tra nostalgia, urgenza e manierismo. Nonostante tutto fa piacere sapere che il grande regista è ancora tra noi, non si è ancora arreso, e ha ancora qualche trucco da insegnare alle nuove generazioni.