Boris
L'approdo in sala della serie cult Sky regala un affresco di cinica ironia.
I cultori di questa serie ormai cult lo hanno atteso e invocato, quasi fosse la giusta ed inevitabile legittimazione di un talento acclamato, quello di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo; un talento fiorito molti anni fa – con Piovono mucche ed Eccomi qua, cinematograficamente parlando, e con una serie di prodotti televisivi ben al di sopra del tenore comune – ma comunque lontano, ingiustificatamente lontano, dal grande pubblico. Boris – Il film è arrivato, si riverserà in 300 copie nelle sale grazie alla sontuosa distribuzione garantita da 01 Distribution, e la sua visione lascia un tumulto, un turbine di sensazioni: contrastanti ma palpabili, reali – l’istinto dello spettatore viene condotto alla ragione. Una riflessione preliminare è d’obbligo, e riguarda una scelta – dichiarata e condivisibile – dei tre autori: il film non vuole e non può limitarsi a catturare il pubblico consapevole, i figli delle tre stagioni non possono essere (e non lo saranno) l’unico approdo per questo lavoro. Un punto fermo questo, che porta ad una chiara ed inevitabile conseguenza, il citazionismo più sfrenato è debellato dalla sceneggiatura, i rimandi a ciò che è stato si assottigliano per lasciare spazio al nuovo, all’inatteso. E così non vedremo luce smarmellata in un contesto francamente troppo italiano, una pausa tornerà ad essere una pausa, senza coffee break, non c’è tempo per pensare al passato.
La troupe è ancora lì, e non potrebbe essere altrimenti, ma René ha deciso di fare il grande salto, non solo artistico: approdare al cinema impegnato ha per lui un valore supplementare, significa scavalcare l’ingiuria di una vita da prigioniero, trascorsa ingabbiato e represso negli abissi della tv generalista. Approdare al cinema vuol dire firmare un film d’autore, d’impegno sociale, che sappia risvegliare lo spettatore intorpidito da chi, come lui, non ha fatto altro che mostrare una realtà altra, falsamente consolatoria. Il cinema per un uomo come lui è la catarsi. Ma Boris è fin dal principio un progetto corale, d’insieme, forte per la vastità dei suoi sbocchi, comici e non solo. Le urla autoritarie del regista si perderebbero nel vuoto se non fossero inquadrate in un sussurrio complesso, articolato: dall’inadeguatezza di Sergio alla demenza di Corinna, dall’ingenuità di Alessandro fino alla cialtroneria di Nando Martellone. Il binario per la costruzione di un affresco ironico e cinico al contempo è ideale, consolidato, ed il risultato che ne viene fuori disattende solo in parte le aspettative.
Boris – Il film, come detto, è un contrasto di opinioni, è un momento di eccellenza trafitto dalla perplessità, è la sintesi della serie e la sensazione che qualcosa sia andato perso, è una risata vera, sentita e la riflessione che forse avrebbe potuto essere di più. Ma è innanzitutto un cast eccezionale di attori, capaci di mutuare il personaggio, di adattarlo ad una (obbligata) costrizione filmica. È la megalomania di Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) in cravatta rosa per un Gianfranco Fini mitico, e Marilita Loy (la più che indovinata new entry Rosanna Gentili), attrice paranoica ed insicura, in cui il verso a Margherita Buy è forse eccessivo ma dal risultato eccezionale, ed è un René Ferretti (Francesco Pannofino, impareggiabile) veramente in grado di scavalcare sé stesso, memorabile nelle sue incoerenze e vero diamante del gruppo. Ma oltre il set c’è la vita, e allora il trio Ciarrapico-Torre-Vendruscolo inizia a sferrare colpi all’industria agonizzante del cinema italiano. Il cinema d’autore coi suoi modi snob e intellettualoidi, con direttore della fotografia perennemente insoddisfatto e tempi di ripresa hollywoodiani; Medusa e Rai Cinema (che produce il film e che stupisce, se non altro, per autoironia), chiavi di accesso per una stanza impolverata e sempre uguale a sé stessa; l’universo cinema tutto, visto da Diego Lopez (Antonio Catania), il delegato di rete, come una forma ignobile di retrocessione rispetto alla sezione tv, tomba di una carriera dirigenziale che si rispetti. Sono affronti che lasciano interdetti per la loro veridicità, e che preparano il passo ad una conclusione fin troppo scontata: il cinepattone, esempio fiammeggiante della deriva artistica di questo paese, tanto palese da lasciare il dubbio che non sia ormai superfluo denigrarlo, da infondere il pensiero che un meccanismo maturo come quello di Boris potesse osare di più.
Ma la commedia intesa come condanna, unico attracco possibile per arrivare al grande pubblico, è un fatto reale, e questo lavoro ha senz’altro il merito di condurre a riflessione dall’interno del contesto, senza sottrarsi o sviare: tutto si fa comicamente drammatico. Cogliendo per una volta l’insegnamento che i maestri della Commedia all’italiana hanno lasciato, cadendo lontano dalla loro finezza ma guadagnandosi tutto il merito di aver risvegliato quel pensiero addormentato.
In conclusione della conferenza stampa di presentazione Ciarrapico disillude, rompe l’incanto: “Non ci sarà un sequel del film, né una quarta stagione televisiva”. Chi ha vissuto il fenomeno Boris fin dal principio non può non sobbalzare sulla sedia, invocando un altro ciak. Permettiamoci, allora, il lusso di non credergli.