Meraviglioso Boccaccio
L'idea di un incontro tra i fratelli Taviani e l'opera di Boccaccio non poteva che risultare stimolante anche se l'opera finale non risulta essere alle altezze del prestigioso duo registico.
Il ritorno di Paolo e Vittorio Taviani con Maraviglioso Boccaccio è comprensibilmente carico di aspettative. Dopo il trionfo critico e festivaliero di Cesare deve morire, i due fratelli sono tornati al centro del discorso del cinema italiano, e l’idea di un incontro tra Boccaccio e l’opera degli autori di Padre Padrone e Kaos non poteva che essere elettrizzante – per quanto non priva di azzardo, se si pensa all’inevitabile confronto con Pasolini e con il suo Decameron libertario e rivoluzionario. Qualcosa, purtroppo, non ha funzionato: dopo la visione, sedimentate le immagini e le emozioni, ciò che rimane è l’amarezza di un’occasione mancata.
L’approccio dei due registi toscani al canone boccaccesco è libero e, a tratti, sorprendente. Il contesto è, naturalmente, quello di una Firenze appestata, dalla quale un gruppo di giovani decide di fuggire per rifugiarsi in una casa di campagna. I ragazzi si raccontano delle novelle a turno per passare il tempo e scacciare l’orrore da cui sono fuggiti: tragiche, umoristiche o grottesche, le storie ricostruiscono un sapere e un sentire comune con cui ricostruire un mondo decomposto.
Sulla carta, l’idea di un incontro tra i fratelli Taviani e l’opera di Boccaccio non poteva che risultare stimolante. Il classicismo inquieto dei Taviani ha ancora molto da dire, e l’opera boccaccesca sembra perfetta per un film a episodi – formato che i due autori hanno già esplorato con eccellenti risultati, come in Kaos. Ma i registi non sono riusciti a fare proprio il Decamerone e ad infonderlo della forza del proprio cinema e del proprio sguardo.
Che cosa manca a Meraviglioso Boccaccio? Manca l’energia e l’urgenza, innanzitutto: l’adattamento dal Decamerone vorrebbe parlare dei giovani di oggi, della necessità di ricostruire da zero un mondo che non manca di pestilenze metaforiche e traumi tangibili. Ma il racconto, freddo e quasi didattico, fa sì che il film scivoli via senza intaccare e colpire lo spettatore. La tragedia di Firenze, la disperazione dei giovani e dei protagonisti dei loro racconti non arrivano oltre lo schermo, complice una ricostruzione d’epoca dal sapore di sceneggiato televisivo. Sarebbe futile il tentativo di rintracciare, in Maraviglioso Boccaccio, la potenza selvaggia e destabilizzante dei miti pirandelliani di Kaos, o l’implacabile rigore di Padre Padrone. Non mancano poesia e bellezza, ma molte sezioni dell’opera scivolano nel banale e nella pigrizia di soluzioni visive e narrative (il suicidio iniziale, il supplizio di falco e falconiere...) che non rendono giustizia al talento degli autori.
Le novelle, che si vorrebbero attuali e rilevanti, soffrono degli stessi limiti dell’architettura generale del film che li contiene. Alcune di esse sembrano quasi giocare con stilemi del cinema di genere – thriller, melò, commedia –, ma i Taviani non osano andare a fondo. Magari lo avessero fatto, magari avessero sfidato il proprio cinema e iniettato una carica di nuova energia! Abbiamo, invece, un certo manierismo e una fotografia dal sapore pittorico che, nonostante la grande eleganza, non fa che esaltare la qualità discontinua di messa in scena e di regia.
Non meno severi sono i limiti a livello produttivo, a partire dal casting: sono pochi gli attori realmente azzeccati e funzionali. I Taviani, in passato, hanno saputo fare un uso eccellente di attori genuinamente popolari, come Franchi e Ingrassia. In Maraviglioso Boccaccio troviamo la panoplia delle stelle italiane del momento: Kasia Smutniak, Jasmine Trinca, Michele Riondino, Riccardo Scamarcio e infiniti altri attori di grande visibilità televisiva o cinematografica, ma le interpretazioni efficaci si contano sulle dita di una mano. Kim Rossi Stuart, nei panni di un idiota che viene convinto di avere scoperto una pietra dell’invisibilità, è stralunato e imprevedibile quanto basta a salvare la novella di cui è protagonista. Anche Lello Arena e Michele Riondino funzionano. Tutto il resto del casting può avere senso a livello di marketing, ma molto meno a livello creativo, e il film ne soffre.
In definitiva, i difetti di Maraviglioso Boccaccio sono di regia, di sguardo e, a livello più profondo, di produzione. Una produzione che non ha saputo valorizzare e stimolare il lavoro degli autori; se sia un problema di eccesso di zelo o, al contrario, di faciloneria commerciale, è difficile dirlo. Si può solo giudicare il risultato: situato a metà del guado tra decostruzione formale e rigore classicista, tra divulgazione e purismo autoriale, il Decamerone dei Taviani è un oggetto senza una vera forma, senza voce e – fatto ancor più grave – senza un vero pubblico. Nelle pieghe della narrazione, dove sono gli occhi e i paesaggi a parlare, il film brilla e si apre alla bellezza. Il resto è un giro a vuoto, un lungo brancolìo. La severità del giudizio di chi scrive è giustificata, si spera, dalla consapevolezza che a due autori del calibro dei Taviani si può e si deve chiedere di più.