The Boy
Stuzzicante quanto poco originale, Brent Bell segue correttamente le leggi del genere e gioca nel segno della tradizione horrorifica delle bambole maledette.
Dalla celebre serie tv Ai confini della realtà, proseguendo con il mitico Chucky fino alla più recente Annabelle, l’immaginario horrorifico ha sempre relegato alle bambole una natura ’sinistra’, spesso demoniaca. Come rappresentazioni inanimate dell’umano ma in grado di suscitare con la sola fissità dello sguardo l’escamotage per il soprannaturale, quel terrore goduriosamente vecchio stampo che filtra in un’atmosfera densa d’incognite.
Non sorprendono, dunque, le inclinazioni radenti al cliché che The Boy di William Brent Bell (L’altra faccia del diavolo, Le metamorfosi del male) irradia fra le mura della casa infestata e i suoi interni lignei, che scricchiolano inquieti e con fare insistito, fuori dal contesto protettivo di una società urbana, sostituita da una macabra ed nebbiosa boscaglia. Qui l’oggetto dell’orrore ha il volto inerte di porcellana, lo stile vintage, gli occhi vitrei eppure simulacri di un ragazzino morto vent’anni prima in un devastante incendio. La paura di credere all’irrazionale prende il sopravvento, dominando la sospensione dell’incredulità per ingabbiarci nelle sue logiche di calma apparente, al cospetto di una situazione così anomala e bizzarra. Che ci fa, quindi, una giovane baby sitter del Montana in un sperduto angolo d’Inghilterra? Perché accudisce un ’bambino’ di soli otto anni, figlio di due coniugi anziani sibillini ed enigmatici?
Stabilite le coordinate in materia di bambole e pupazzi, il racconto scritto da Stacey Menear intacca il nostro razionalismo con un’ansia costante, alterando tradizionali picchi di paura a suggestioni cariche di ambiguità.
Tutto basato sull’imprevedibilità come richiesto dal genere, The Boy muove lo spavento sul confine tra la realtà percepita e quella immaginata: dietro le premesse da classica storia di spiriti maligni si svelano inquietanti risvolti psicologici, dove nulla è che sembra. Quella imbastita da Brent Bell è una dimensione cigolante e nemica dove ogni evento porta ad una destinazione ignota, in cui l’assurdo va di pari passo al colpo di scena, ben assestato da una regia abile nel conservare una forte, arcana dose di suggestione. Anche nelle fasi meno concitate, la fissità di un’inquadratura – che volge su un panorama immutato – si conferma in sè strumento di paura. Ma se da un lato la stravaganza garantisce quei canovacci oliati da tanto cinema di serie B, è pur vero che basterebbe davvero poco per mandare in frantumi il delicato intreccio narrativo. Fragile quanto il suo ‘feticcio’ di porcellana, tenuto a galla da una discreta recitazione che comunque scade presto nel prevedibile, prima ancora di distinguersi per il proprio twist che ne ribalta aspettative e congetture.
Dalle anguste soffitte alle anime più tormentate, Brent Bell adegua forma e contenuto ad una storia claustrofobica incisa col sangue. Tutto come da manuale, tra diversi sobbalzi e puntuali citazioni cinematografiche (a partire dall’archetipo del castello in mezzo al nulla, tanto grande da trasformarsi in una trappola). Tuttavia resta da chiedersi se, con uno script più mirato, il film avrebbe potuto godere di maggior inventiva, sfruttando meglio un cambio di registro che arriva tardi e un pò faticamente nella parte conclusiva. Al netto di ciò resta comunque un lavoro di cui ci si sente spinti ad esplorare gli angoli bui, a scrutarne i terribili segreti per cercare un altro indizio, o un’impronta nel segno dell’orrore. Qualità da non sottovalutare, che regala momenti di godibile piacere.