MEGALOPOLIS
Cosa fare di Megalopolis? Stupefacente e indecifrabile, è cinema per se stesso e nessun altro: a volte, l’unico possibile.
A ormai un mese dalla comparsa in sala, non esiste ancora una definizione precisa di Megalopolis. Il dibatto anche furioso sull’opera-testamento di Francis Ford Coppola ha curiosamente evitato il confronto con il film in sé, concentrandosi piuttosto sul ruolo che questo andrebbe ad occupare idealmente nel panorama audiovisivo contemporaneo - per non dire della storia del Cinema tutto. Con Megalopolis, inutile usare eufemismi, ci si è trovati di fronte ad un Evento di quelli veri, potenzialmente definitori, nei confronti del quale lo scherno rabbioso del grande pubblico “lasciato fuori” appare fuori contesto quanto le dichiarazioni d’amore dei critici innamorati (forse più di Coppola stesso che del film, distinzione in questo caso più che mai pretestuosa).
In una fase storica in cui le “imprese” cinematografiche appaiono sempre più inconcepibili, Megalopolis si pone quindi come un high water mark non tanto artistico, quanto simbolico. Quello che potremmo sintetizzare come il primo film d’avanguardia prodotto e concepito come un blockbuster è d’altronde figlio di una contingenza irripetibile: lo sforzo folle e individuale di un unico autore-investitore, alter ego quanto mai scoperto del protagonista, votato a ridisegnare un futuro al cinema-metropoli-mondo. E’ sull’asse metonimica della città come film e del film come universo che Megalopolis fa della sua utopia artistica un’Utopia a trecentosessanta gradi: non con ciò che mette in scena, ma attraverso la propria stessa assurda esistenza.
Una volta riconosciuto il senso di Megalopolis, resta però da tradurne le immagini in qualcosa. E di fronte alla visione in sé, il giudizio si complica. Come il return di Twin Peaks o gli Avatar di Cameron, forse gli unici altri esempi degli ultimi due decenni ad aver a modo loro piantato una bandiera, delimitato un limite a cui guardare e con cui confrontarsi - così anche Megalopolis è un unicum destinato a rimanere tale. Non indica il futuro della settima arte più di quanto non ne celebri il passato, irriducibile com’è a riferimenti precisi (che pure ci sono, da Vidor a Lang e quanto altro già ampiamente individuato all'interno della filmografia del regista). Modernista anziché postmodernista, Coppola parla un linguaggio suo e di nessun altro. Non il balbettio sconnesso e inintelligibile che gli hanno imputato i critici americani, quanto l’idioma sconosciuto di un alieno venuto da chissà dove.
Da queste premesse, è chiaro come sia impossibile trarre da Megalopolis alcuna lezione su un ipotetico nuovo cinema che da esso possa nascere. Messa da parte ogni regola di storytelling, le inquadrature diventano rappresentazioni astratte di scenari interiori: una statua di marmo può accasciarsi stanca a riposare di fronte al protagonista, e nessuno (né lui, né il film) sottolineerà il fatto. Si parla di urbanistica, Antica Roma, Shakespeare e superpoteri temporali – ma sono pennellate di un affresco impressionista più che linee narrative. Un’analisi frame by frame del film impiegherebbe semiologi e storici del medium per un anno, e il massimalismo felliniano dei set pieces uno più stordente dell’altro ne è solo l’aspetto più sfacciato.
A essere messo in discussione in Megalopolis è l’ABC stesso del racconto audiovisivo, ripensato dai dialoghi (un raffinato argot elisabettiano aggressivamente anti-naturalista), al rapsodico montaggio che divaga tra frammenti e squarci di vita senza apparente direzione, fino a una brechtiana Roma in cui la storia presente e passata collassano l’una sull’altra. Viene da appellarsi a precedenti storici nelle avanguardie - Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi di Straub e Huillet, magari? Ma nel suo rifiuto di rispondere ad alcuna teoria, Megalopolis si pone al di fuori persino dalla tradizione (ben più conservatrice di quanto si creda) del cinema sperimentale. E’ ciò che girerebbe un bambino che non abbia mai visto un film – o un vecchio che li abbia già fatti tutti. “Mi ci è voluta tutta la vita ad imparare a dipingere come un bambino”, celebre aforisma picassiano che Coppola senz’altro sottoscriverebbe.
La domanda che ci pone questa idea - meglio ancora, questa ideologia creativa, non può però ridursi a una diatriba tra cerebrolesi dei supereroi e menti belle delle accademie. Cosa fare di un’arte tanto autoindulgente da chiudersi allo sguardo dello spettatore (e dunque di un interlocutore), ponendosi come pura espressione di una mente allucinata? E dunque: che dobbiamo farcene di Megalopolis?
Il rischio di molto cinema ad aver provato questa via è quello di rimanere sul concetto - in altre parole, che sia più bello pensato che guardato. Art pour l’art programmatico, ma non ispirato. E’ un’accusa legittima ma che, più che mai di fronte a Megalopolis, ci si sente di respingere con fermezza. Perché l’invasamento demiurgico che anima il film non ne è un aspetto: è il film stesso. Cinema come creazione di spazio, dunque di presente, in risposta ad un tempo che sta finendo (Roma come paradigma di un’istanza vitale che ha nella continua decadenza la propria condizione costituente). Le triplice metonima di film-società-mondo converge nell’utopia di un vecchio che vede la propria storia concludersi (Eleanor Coppola, cui il film è dedicato) e cerca un perché ai suoi momenti finali. Modernista fino alla fine: l’Irishman dell’amico Scorsese chiedeva alla macchina da presa di immortalare il passato in una mummificazione digitale che annullasse il tempo. Megalopolis chiede all’immaginazione di farsi centro filosofico per una creazione artistica del futuro, e trova qui la sua ultima risposta.