Torino 2020 / The Dark and The Wicked
Il ritorno alla regia di Bryan Bertino, a quattro anni da "The Monster", è un atto d'amore verso l'horror puro e semplice, e la conferma definitiva del talento del regista.
Forse ci voleva proprio un film come The Dark and The Wicked per rendere finalmente giustizia a uno dei registi di genere più sottovalutati dell'ultimo decennio (e oltre). Perché se è vero che con l'esordio di The Strangers Bryan Bertino era riuscito a ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto nel circuito dell'horror indipendente, troppo spesso i suoi film sono stati liquidati come semplici esercizi di stile o come trite riproposizioni di situazioni ormai note. Critiche condivisibili, d'altronde, se si guarda superficialmente anche a questa sua ultima fatica, presentata nella sezione Le stanze di Rol all'ultimo Torino Film Festival: un compendio di tutto l'armamentario del genere all'interno di una storia che più convenzionale non si potrebbe immaginare.
C'è un'entità malvagia, infatti, che aleggia sulla fattoria dei vecchi genitori dei due fratelli Louise e Michael (Marin Ireland e Michael Abbott Jr.). Un Male invisibile e senza nome che, forse, è la causa diretta della malattia terminale del padre e che sta facendo lentamente impazzire anche la madre. Niente di nuovo, certo. Eppure nelle mani di Bertino persino gli spunti più abusati sembrano vivere di nuova vita. Era stato così per l'home invasion nel cult The Strangers, per il mockumentary nel sottovalutato Mockingbird, persino per il più immediato ed elementare The Monster, ed è lo stesso ora per questo horror rurale, dove il Male si annida, ancora una volta, tra le mura domestiche, nascosto tra i legami famigliari, tra il non detto di rapporti logorati o perduti per sempre.
Innestandosi in quel filone parentale alla Ari Aster (ma anche Mike Flanagan), Bertino, con la consueta regia abile e salda che non si perde in vezzi stilistici o trovate dozzinali, confeziona così una piccola riflessione teorica che trasuda amore autentico e genuino per il genere. Un incubo mano a mano sempre più angosciante dove è ancora una volta l'immagine, la sua veridicità, la sua affidabilità, tra una realtà sempre più labile e le sue inevitabili allucinazioni, il centro di tutto. Una riflessione che non appesantisce la vicenda, ma che al contrario si amalgama perfettamente con un sottotesto come sempre ben chiaro e definito, che parla delle responsabilità dell'amore filiale, della paura della perdita, del terrore suscitato dal lutto e dall'ignoto.
Dosando sapientemente tutti i trucchi del mestiere (i jump scares, sempre efficaci e poco scontati, si contano sulle dita di una mano), forte di un comparto sonoro suggestivo e di uno script solido nella sua essenzialità, Bertino resta ben saldo all'interno dei confini dell'horror più tradizionale apportandovi però il peso di uno sguardo tutt'altro che innocuo e passivo, anche e soprattutto quando si nasconde dietro l'immediatezza e la semplicità dell'ennesima storia di presenze e possessioni. Riuscendo, nel frattempo, a fare anche quello che dovrebbe fare ogni horror: paura.