Torino 2020 / The Oak Room
Una voce al caldo che racconta mentre fuori fa freddo, un neonoir sul potere del racconto e sulla necessità umana di ordinare il mondo attraverso la narrazione.
Sei già stato qui.
Davanti a un bancone, bicchiere in mano, al riparo mentre fuori dalla porta neve e ghiaccio mimano la loro piccola fine del mondo.
Sei già stato qui.
In un locale quasi avvolto nel buio, un’oscurità catramosa, dentro un mare notturno da cui emergono sottili linee di luce, scritte e insegne che tracciano le coordinate dell’ambiente come barriere coralline al neon. C’è atmosfera qui, c’è l’ultimo calore della giornata e odore di legno, e torba e alcol sparso sul tavolo ancora appiccicoso. Ma soprattutto ci sono storie, storie avvolte in loro stesse, una dentro l’altra, evocate da voci al caldo mentre fuori gela e imperversa la tempesta.
Potrebbe essere un racconto di Stephen King questo The Oak Room, un racconto come tanti dello scrittore del Maine, in cui le storie prendono corpo dentro un bar in chiusura, ultimo bastione prima della ritirata notturna. L’impianto è dei più semplici: c’è un uomo al bancone che ascolta e racconta, e c’è un ragazzo perduto, tornato in città dopo la morte del padre e delusioni familiari e torti affettivi, che ascolta e racconta a sua volta. E in un ballo a due di recriminazioni, scuse mancate e storie offerte come materia di scambio per vecchi pegni di famiglia, i racconti dei due generano altri bar e avventori notturni, storie che innescano altre storie come scatole cinesi in cui la narrazione stessa si pone in primo piano e svela tutti i suoi meccanismi.
A questo punto si potrebbe pensare a un neonoir sulla scia di Tarantino, magari agli avventori assediati dalla neve di The Hateful Eight, ma saremmo fuori strada. Non c’è nulla di pulp postmoderno in The Oak Room, per lo meno nulla che voglia decostruire per ironizzare, scollegando i personaggi dal reale attraverso il potere affabulatorio del racconto. La parola, in Tarantino e soprattutto nel tarantinismo che ne è derivato, è uno strumento che poco ha a che fare con il ruolo atavico che la storia porta con sé, non serve a ordinare il mondo ma ad apparecchiare le premesse della sua deflagrazione. The Oak Room, al contrario, è un neonoir che ha il classicismo nel midollo, è Shahrazād, è un b-movie sfacciato e fuori tempo che riconosce l’importanza ancestrale che le storie da sempre hanno e ne evidenzia la capacità creatrice, ordinatrice appunto, attraverso la quale cerchiamo di spiegarci il reale e organizzarlo in forme gestibili.
Via via che il racconto orale prende forma, il film di Cody Calahan semina suggestioni e suggerimenti, dispiegando sentieri narrativi la cui architettura ci suggerisce combinazioni, incastri, colpi di scena, quando in realtà nulla di ciò deve necessariamente accadere. Lo scheletro narrativo che via via emerge esiste soltanto nella nostra mente, perché se le storie ci illudono di poter prevedere, anticipare e quindi reagire agli eventi, in quanto ascoltatori/spettatori ci aspettiamo che determinate svolte accadano, che determinate coincidenze vengano confermate. E questo perché immaginare che gli eventi seguano una logica causale – e non siano piuttosto schegge fattuali lanciate da un Dio ubriaco che gioca a dadi con il mondo – ci tranquillizza e mette in una posizione di maggior controllo. È per questo che The Oak Room è ben di più di una voce calda che racconta mentre fuori fa freddo, è più di un intelligente neonoir capace di gestire le limitazioni di budget stimolando l’evocazione e l’immaginazione dello spettatore; Calahan e il suo sceneggiatore Peter Genoway ci seducono con l’ambientazione e l’affabulazione dei personaggi per dire qualcosa di profondamente vero riguardo la finzione. E cioè che ci serve raccontare storie e le racconteremo sempre, che siamo fatti di racconti, libri di sangue e carne con cui mettere ordine al caos del reale, ponendoci al centro di una progressione sensata di eventi. Senza dimenticare, però, che ciascuno di noi è anche, sempre, il racconto di qualcun altro, protagonista di una storia di cui non conosciamo il narratore.