Cos’è un kapò, o un nero capo schiavista? Un complice delle atrocità dei bianchi razzisti. Ma, nella scala dei valori morali, si può collocare alla pari dei criminali assassini? Un po’ sotto? Un po’ sopra? Gershom Shalom direbbe: un po’ più sotto. Tradisce il proprio fratello. Obbedisce, per aver salva la pelle, a ordini eticamente ingiusti, insensati. E aggiunge. Per la fondazione dello stato di Israele la condanna a morte di Eichmann fu un errore… Semmai per la fondazione dello stato di Israele più che un capro espiatorio esterno ci vorrebbe un capro espiatorio interno, per esempio Musmelstein, il dottore ebreo che cercò di salvare più ebrei ricchi possibili. E, fino alla fine, sopravvivendo al campo di concentramento che aveva, certo subalternamente, accettato di gestire, garantì la correttezza della politica apartheid hitleriana e impedì ogni rivolta e sommossa. Le dernier des injustes (L\'ultimo degli ingiusti) vuole dimostrare, invece, l’innocenza di Murmelstein.
Claude Lanzmann, direttore di Les Temps Modernes, giornalista, ex partigiano, al fianco dell’Algeria insorta, documentarista di 88 anni, ha presentato, non in concorso, il suo settimo lavoro concentrato parallelamente sull’indagine storica dello sterminio degli ebrei e sulla nascita e difesa dello stato di Israele.
Tre ore e 38 minuti sono stati dedicati questa volta dal cineasta di Clermond-Ferrand all’ultimo presidente del Jewish Council, il consiglio ebraico nel ghetto ‘speciale’, non di sterminio industriale, di Terezin (60 km a nord ovest di Praga), al capo dei kapò, all’ex rabbino di Vienna, e professore universitario Benjamin Murmelstein. Sottoposto a una violenza inaudita e inattaccabile – ci dice il film – reagì per minimizzare i danni. Non si può certo paragonare al cosiddetto gruppo ebraico dei 13 di Varsavia, guidati da Gancwajch che fu un vero informatore dei nazisti e traditore.
Il valore storico e umano del documento è far luce vera intanto sul ‘caso Teresin’, la “città regalata da Hitler agli ebrei di serie A” nel 1939, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, demistificandone la propaganda che descriveva quella fortezza settecentesca (nelle news dell’epoca) come il ‘ghetto modello’, un campo di concentramento a 5 stelle, la facciata pulita che doveva dimostrare all’opinione pubblica internazionale la correttezza della politica apartheid del nazismo che dotava gli ospiti ‘prominenti’ (furono anche 50 mila, ma 20 mila furono da lì spediti alle camere a gas in una settimana) di ogni comfort materiale e spirituale. Ma soprattutto dare la parola a un sopravvissuto speciale, a un’alta personalità della cultura ebraica a lungo collaboratore coatto di Alfred Eichmann durante il periodo 1934-1938 degli esodi legali e illegali di ebrei dalla Germania e dall’Austria (avrebbe fatto espatriare circa 120 mila ebrei, quelli in grado di pagare documenti di espatrio più che esosi, l’Imu con la stella gialla non era uno scherzo, anche attraverso il corridoio clandestino Francia-Spagna-Portogallo-Palestina). A un politico astuto e opportunista, comunque dotato di passaporto della Croce Rossa Internazionale, in grado dunque di lasciare il paese con la famiglia senza difficoltà fino al 1940, e che invece rimase al suo posto, spingendo anche inutilmente il terzo Reich verso una ‘soluzione finale’ incruenta, rivelatasi poi un miraggio: l’esodo neobiblico della comunità eskenazita in Madagascar. In tutti i ghetti ebrei, dall’ottobre del 1939 i nazisti avevano imposto la nomina di un consiglio formato da 12 membri, chiamando il capo, non senza denotazioni tribali, ‘Judenalteste’. L’idea era quella di far autogestire il genocidio in proprio. Che compilassero loro le liste della morte, e coordinassero loro i viaggi nei treni merci, nodo centrale la famigerata stazione polacca di Nisko. Magari favorendo i più ricchi e i meno comunisti (prima di essere loro stessi assassinati). Minimizzare il numero delle vittime. Questo, invece, il lucido disegno di Murmelstein (“ero come un Sancho Panza della situazione, non volevo perdere il rapporto con la realtà”). E che si descrive come un buffone di Carnevale, quello schiavo dell’antica Roma che veniva eletto re per un giorno solo e, venerato beffardamente, veniva poi giustiziato la mattina dopo. Come un deriso Cristo, con la corona in testa…
Nel dicembre 1944, a guerra ormai persa per Hitler, Murmelstein fu nominato Judenalteste di Terezin, dopo che i suoi due predecessori, Edelstein e Epstein, costretti a coprire, e far eseguire da boia ebrei, condanne a morte per impiccagioni arbitrarie (per usare un eufemismo), erano stati giustiziati o spediti a Auschwitz per presunta istigazione all’insubordinazione. Fino alla fine della sua permanenza a Terezin, Murmelstein – che si vanta di avere dato prova di grande fermezza con i suoi subalterni (per salvarne il più possibile) pur dentro una situazione difficile da gestire anche internamente (‘i martiri non si può proprio dire che siano tutti santi’) – si dichiarerà convinto che i campi all’est, Birkenau in particolare, “certo dovevano essere peggiori del suo”, ma non si renderà mai conto che fossero l’inferno, campi scientifici di sterminio inaudito. Strano, perché considera Eichmann, a differenza di Hannah Arendt, un mostro spietato, un diabolico essere, ignorante, inefficiente e corrotto. Non quel perfetto, zelante burocrate, simbolo stesso della ‘banalità del Male’ descritto da una intellettuale ‘newyorkese’ molto poco informata…
Lanzmann girò per una settimana nel 1975 (e non senza difficoltà, perché tutti i suoi attrezzi del mestiere gli erano stati rubati da una gang presumibilmente nazistoide) una lunga intervista al ‘Maggiore degli Ebrei’, sul bellissimo terrazzo della sua casa nel ghetto, o passeggiando per il Foro di Roma, la città che aveva concesso l’asilo al sopravvissuto, autodefinitosi ‘l’ultimo degli ingiusti’ (parafrasando il libro di André Schwartz-Bart), un ‘quasi giusto’, anche se era stato imprigionato dopo la liberazione a Praga per un anno e mezzo e poi prosciolto da ogni accusa di collaborazionismo e tradimento. Nel 1961 Murmelstein pubblicò in Italia “Terezin, il ghetto modello di Eichmann”, uno sconvolgente memoriale sulle atrocità contro i prigionieri, che si basava sui documenti inviati al pubblico ministero di Tel Aviv per il processo Eichmann, al quale non partecipò di persona. Anzi non si è mai recato in Israele. L’intervista filmata, depositata subito a Washington, nel museo ebraico, e utilizzata a spezzoni e impropriamente più volte, quasi 40 anni dopo è stata montarla (non sappiamo quanto e dove tagliata rispetto all’originale) e contestualizzata da Lanzmann con interventi esplicativi letti da lui stesso nei vari luoghi dell’azione: Nisko, Theresienstadt, la chiesa che conserva sulle sue pareti, quasi illeggibili, tutti i nomi delle vittime della madre di tutti gli stermini. E solo il cattivo gusto può definirlo nei termini religiosamente scorretti di ‘olocausto’ o ‘shoa’.