Wolf
Il senso di colpa della Shoah cristallizzata nel corpo del figlio del rabbino capo del ghetto-modello di Terezìn.
Nell’anno che precedente alla ricorrenza dei settant’anni dalla Shoah sono state presentate, in diversi festival nazionali ed internazionali, due opere che indagano sulla controversa figura di Benjamin Murmelstein, rabbino capo della comunità ebraica di Vienna fino al 1931 e divenuto poi – dopo i precedenti suicidi dei due anziani rabbini anticollaborazionisti – il reggente del ghetto di transito di Terezìn. Le opere in questione sono: Les dernier des injustes di Claude Lanzmann – nella quale viene proposta l’intervista realizzata dallo stesso Lanzmann nel 1975 a Benjamin Murmelstein e Wolf di Claudio Giovannesi. Se nella prima di queste opere, Lanzmann, cerca di fare chiarezza riabilitando la figura del rabbino capo, ghettizzata a sua volta (dopo la Liberazione e dopo l’assoluzione al processo del Tribunale del Popolo di Litomerice) dalle comunità ebraiche mondiali per collaborazionismo nei confronti del Terzo Reich; nella seconda opera, si indaga sulla psicologia del figlio di Benjamin: Wolf Murmelstein. Alla sua quarta opera cinematografica, Claudio Giovannesi, giovane regista romano con spiccate capacità autoriali che ha già diretto due lungometraggi di fiction, Ali ha gli occhi azzurri e La casa sulle nuvole, ed un documetario, Fratelli d’Italia, si cimenta, su commissione dell’Istituto Luce Cinecittà, nel racconto della personalità scissa e dolente del figlio del rabbino Murmelstein. Opera in concorso alla 31° edizione del TFF nella sezione italiana.doc vincendo il premio speciale della giuria ad ex aequo con Striplife, opera che noi dei Sotterranei abbiamo voluto recuperare.
Giovannesi lavora sulla cristallizzazione della memoria della Shoah sia ad un livello collettivo, attraverso la staticità del materiale fotografico d’archivio che si adatta alla ripresa dal vivo dell’attuale ghetto di Teresìn, sia a livello individuale attraverso il racconto dell’esperienza famigliare vissuta dal figlio Wolf, depositario del senso di colpa che infligge l’animo del salvato.
Attraverso la figura di David Meghnagi, psicanalista e co-sceneggiatore del film che accompagnerà l’indagine psicologica, traspare la difficolta di un uomo nel riuscire ad affrontare la colpa del padre cercando disperatamente di salvarne l’onore. Wolf ci parla dall’interno della gabbia paterna, tra quelle sbarre di carne e di vergogna che il processo di razionalizzazione psicanalitica potrebbe infrangere e liberare. Il racconto diventa rimenbranza, tra il ricordo degli anni passati con il padre nel "ghetto-modello" di Eichmann al tema delle liste dei deportati, sulla conoscenza o meno del loro luogo d’arrivo. Il figlio difende e sostiene la fatalità del momento storico, il dovere nel collaborare in cambio della vita, la possibilità di salvarsi cercando poi di salvare più persone possibili dallo sterminio, avendo scelto per necessità l’ingrato ed infame compito della selezione del nome da sommergere o da salvare. Magnificamente toccante è l’incontro con il rabbino capo di Roma mentre sostiene tesi dell’eroe suicida o collaborazionista e Wolf ascolta con il capo chino nell’incapacità di sostenere lo sguardo di un perdono placido e tardivo. Giovannesi riprende un’indagine psicologica tenendo sempre in scena le due figure, dello psicanalista e del paziente, riuscendo comunque a verbalizzare la sua capacità autoriale attraverso dei lenti piani sequenza di respiro e di raccordo, con le parole in over dello stesso Benjamin Murmelstein a raccontare le sue scelte obbligate. La diegesi si arricchisce dall’utilizzo della fiction attraverso una selezione di sequenze di due opere cinematografiche realizzate sulla figura di Benjamin: Transport z ràje di Zbynek Brynych del 1962 e della miniserie americana Ricordo di guerra di Dan Curtis del 1988.
Wolf è un documentario che mostra la deriva di un uomo, l’incapacità di elaborare lucidamente gli eventi storicizzati, un senso di colpa ombelicale che unisce la memoria del padre alla vergogna del figlio.