Irene (Jasmine Trinca), universitaria romana di oggi, è costretta a lavorare per mantenersi agli studi. E siccome il lavoro non c’è, e non c’è ancora il reddito di cittadinanza, le borderline delicate di oggi (più affascinanti delle ciniche opportuniste di ieri) sanno inventarsi un business etico, con ogni mezzo e rischio necessario, meglio se autonomo, esplorando gli interstizi della legalità (Hollywood nacque proprio così, e anche il network commerciale televisivo in Italia). Si chiama ‘start up’, adesso. Un coetaneo infermiere (Libero di Rienzo) la coinvolge nell’affare illegale dell’eutanasia (di cui nulla deve sapere il padre, o l’amante o le amiche): non deve essere più redditizio, negli ospedali, scommettere sull’ora di morte dei pazienti gravi…. Irene, un’ombra di dolore nello sguardo, diventa così ‘Madame Morte’. Si tratta di procurarsi, e poi iniettare lentamente, un barbiturico introvabile dall’autopsia e sul mercato (se non in Messico, il paese degli scheletri danzanti), e aiutare – semplice il rito – i malati terminali consenzienti, che presto saranno ridotti allo stato semivegetativo a passare a migliore vita se pure la famiglia è d’accordo.
Una professionista in carriera, questa enigmatica se non nell’ostinazione Irene, capelli da maschietto, con la carta Millemiglia sempre pronta e un codice d’onore immacolato. E anche la regista del film raddoppia il pudore: come nella tradizione del western classico non vedremo mai in campo, nella stessa inquadratura, chi spara e chi muore, l’avvelenatrice e l’avvelenato cadavere. Solo i preliminari. Ma un giorno Irene, pseudonimo di lavoro Miele, che vede nel frattempo sbriciolata la sua vita privata, sarà costretta a fare i conti con la propria coscienza – l’eutanasia in fondo è permessa in alcuni stati del nord Europa e ci si sta dividendo anche in Italia sulla sua legalizzazione – perché un cliente, il signor Grimaldi (Carlo Cecchi), architetto di fama, non è affatto malato, sta bene fisicamente, solo ha deciso di svanire. E la depressione non è contemplata nel decalogo di Irene. Libero di uccidersi lui, libera di salvarlo con ogni mezzo necessario lei. Che ha volontà di potenza da vendere. E che sa declinare un raggiante sì alla vita senza esserne una apologeta frivola. Tratto liberamente da un recente romanzo, attualizzato da tragici, recenti suicidi illustri l’incastro emozionale è doloroso e penetrante, e viene accentuato dalla fotografia dolce e fredda di scuola esteuropea (Georgely Poharnok), da una cinepresa innamorata di Miele quanto di Irene, dal montaggio schizofrenico (Giorgio Franchini), a volte addirittura sfrontato, più che semplicemente nervoso (il passaggio tra Città del Messico e una piazza di Forlì è piuttosto ardito ma efficace) ma anche capace di fluidità romantica.
Esordio felice nella regia della nostra attrice più cosmopolita e formalista Valeria Golino – smarcatasi, come Quadrado, dal nostro cinema medio affogato da una nera poltiglia nauseabonda di personaggi femminili subdecenti – questo Miele ha un design adeguato al mercato internazionale, è al Certain Regard di Cannes dopo una uscita brillante in Italia, perché non spettacolarizza la morte ma problematizza l’individualità senza aura di una operatrice sanitaria anche se clandestina. Perfetta la performance di Jasmine Trinca, al massimo della concentrazione doppia, e talmente magnetica nel ruolo di ‘morte al lavoro’ da farsi carezzare amorevolmente tutto il tempo dalla macchina da presa con microaffondi arditi, che ne segnalano o ne imprimono soprassalti, paure, indecisioni, distrazioni. Neanche fosse Isabelle Huppert.
Autoprodotto dalla sua (e di Riccardo Scamarcio) Buena Onda e affiancato nella scrittura da un duetto non conformista (Francesca Marciano e Valia Santella), solo a tratti (il finale islamico, con il volo del foglietto) riportato all’ordine del racconto, il film di Valeria Golino gioca tutto sulla apparente contraddizione tra “miele” e “morte”, tra luce e buio, tra leggerezza e tenebre. Questo legame tra l’eccessivamente dolce, solare, silvestre acquatico (gli esterni privati di Irene) e la putrefazione interiore dei cadaveri, analizzato con rigore da filosofi e antipsichiatrici estremi (Deleuze, Guattari, Cooper) in un magnifico documentario di Alberto Grifi (A proposito del dolce), dallo straordinario, stoico suicidio di George Sanders (che non era neppure depresso “dopo una vita così felice”) e dalla proliferazione sconvolgente di suicidi kamikaze politico-religiosa (con ingresso glorioso e agevolato nel paradiso dei beati) trova qui una sintesi visuale di sconvolgente bellezza, partecipazione e candore. A parte una strana battuta di Cecchi che alluderebbe al fatto che tra depressione e non avere figli ci potrebbe essere un nesso causale, post hoc ergo propter hoc…