Lo sapevate che per essere sicuri di avere figli in un certo convento di suore, a Napoli, vi potete sedere su una bella poltrona e, se la vostra fede è certa, avrete molte possibilità di essere esaudite, anche se la scienza è molto perplessa? Alla superstizione si può anche non credere, ma perché mai non provare? Ma quando si è proprio drastiche nel laicismo, la seduta, strappata a fatica alle suore diffidenti, si trasforma in una missione impossibile. L’attrice Valeria Bruni Tedeschi, come Valerio Adami, il nostro pop-artist più ‘francese’, quando scrive e dirige le sue commedie sentimentali (il genere principe del cinema francese) racconta solo cose che conosce molto bene, e un po’ le trasfigura. Tutte vagamente autobiografiche, allora, le sue opere: la vita, i drammi e i contrasti domestici, le passioni e gli amori, anche musicali e letterari, i soldi, le avventure creative, le paure, a partire dal trauma dell’esilio parigino (per motivi di famiglia e per sfuggire a eventuali attentati terroristici il padre porta tutti a Torino, e spostarsi da Torino chissà perché è più tragico che altrove), al dissidio con la sorella e alle sue celebri storie con Mimmo Calopresti e con Louis Garrel.
In Un chateau en Italie, l’allieva (teatrale) di Chereau, per la prima volta promossa al grande concorso di Cannes dopo alcune ottime prove precedenti, stimate per la loro eccentricità e originalità, ecco che ci racconta un po’ proprio le sue ultime vicissitudini. La conoscenza e il rapporto d’amore e la rottura e il ritrovarsi con il più giovane collega, la morte del fratello di aids, la crisi economica della famiglia, costretta a vendere un Brueghel e (ai russi) un bellissimo, antico castello piemontese che il sindaco (Silvio Orlando) avrebbe desiderato regalare alla comunità. Ma, nel film, lei è Louise e lui Nathan. Lei quarantenne, lui trentenne. Lei che vuole un figlio, lui che vuole un rapporto meno ‘adulto’. L’incontro è casuale. Nei campi. Lei perde un rosario e lui glielo riporta (uno simile) a Parigi. La vespetta. Le canzoncine di Buscaglione per non fare proprio la Nanni Moretti donna, il caffé al Café. E i personaggi interpretati da Filippo Timi, il fratello adorato e morente (ormai un Gian Maria Volonté capace di dominare ogni storia e set), Marisa Borini, la mamma ‘concreta’, Noemie Lvovsky, la fidanzata di Timi, che fanno parte di una partitura fantastica. Il fratello e la crisi di famiglia sono romanzate e quel che conta è più che altro Checov, il Giardino dei ciliegi, e la sua musica. Il punto di partenza era attraversare il genere con un tipo di comicità più consistente e meno farsesca rispetto ai blockbuster alla Quasi amici. Preparare una strategia di sopravvivenza, quando la paura di invecchiare e della morte (il fratello) obbligano alle scelte veloci. Un figlio potrebbe essere una soluzione. Un film anche, o un detour improvviso. In fondo Louise ha smesso di far vinema. Vuole che la vita entri nella vita. O, direbbe Paolo Virno, “che i sensi sentano se stessi sentire”. Si potrebbe dire che il film fabbrichi una contemplazione.
La contemplazione di una donna allo specchio. Una delle prime scene mostra Nathan, che nel film interpreta proprio un attore, alle prese con un classica ‘esterno’. Alla guida dell’automobile, sotto la pioggia scrosciante, in un viottolo di campagna, deve impersonare un uomo al volante in grande crisi esistenziale. Il regista dà alcuni suggerimenti, non è convinto del primo ciak. Al secondo Garrel si fida del regista. La ripresa è buona, ma lui manda tutti a quel paese. E’ un attore di stile Jean Pierre Leaud, non sopporta la falsità del cinema a programma. In realtà il metodo recitativo libero imperava anche nella Hollywood classica. Perfino un regista cattivo per eccellenza, come Otto Preminger, lasciava all’attore la massima libertà nell’interpretazione di una battuta, perché considerava utile all’architettura narrativa complessiva finale le libertà emotive che l’attore poteva introdurre e il regista ottimizzare via via. Per dare sfumature più complesse ai personaggi. Ecco il metodo Preminger, di costruzione spessa e per accumulazione di sfumature è quello che fa la differenza di questo testo, a volte nevrotico, a volte fuori strada, a volte buffonesco, a volte documentaristicamente hard, come quando viene abbattutto un castagno gigantesco (e malato) a volte imprevisto (come quando appare dal nulla Omar Sharif) anche se tutto viene impaginato nella scansione temporale. Le quattro stagioni. A cominciare dall’autunno.