Icaros: A Vision
Presentato al Tribeca Film Festival, il docu-film ambientato nell'herzoghiana Iquitos è un'opera-testamento dal passo rituale ed elitario
Se solo Leonor Caraballo e Matteo Norzi si fossero concentrati di più sulle fondamenta e le enormi potenzialità del cinema, forse Icaros sarebbe diventato immediatamente un cult. È sempre una questione di regole, magari infrante e superate dopo averle decise, ma comunque imprescindibili.
La storia può emozionare: la Ayahuasca è la droga del momento, almeno fra gli ambienti della upper class americana; si tratta di un intruglio da bere ad alto tasso allucinogeno, considerato sacro dalle popolazioni indigene del Sud America. Alla Caraballo viene diagnosticato un tumore che non lascia scampo e allora, alla ricerca di un miracolo, raggiunge l’amazzonia peruviana alla volta di un centro sciamanico. Qui, i santoni somministrano ogni sera la bevanda ai visitatori per un’esperienza mistica “guidata” che curerebbe ogni male, fisico e spirituale. Gli icaros, le litanie sacre dal potere esorcizzante, si aggiungono agli effetti benefici della sostanza.
La regista italo-argentina muore durante le riprese di un film che racconta tutto questo, e allora Icaros è un’opera testamento che non solo ibrida la realtà di quel luogo - psico-magico, verrebbe da dire - con la finzione degli attori-ospiti (ci sono i veri sciamani davanti alla macchina da presa), ma si fonde anche con la tragedia dell’ideatrice del progetto.
Il problema è che, di tutto ciò, a giudicare soltanto dalle immagini, lo spettatore che non conosca il fenomeno borgese dell’Ayahuasca e che non si sia informato sul retroscena, non potrà che avere una comprensione parziale e insufficiente. Quello che vediamo è solo un gruppo di personaggi che tenta di risolvere i propri problemi in un contesto sospeso tra animismo, psichedelia e onirismo. Tutto vero, tutto finto? Oltre ad Ana Cecilia Stieglitz, che interpreta Leonor ma si fa chiamare Angelina, spicca un sorprendente Filippo Timi nella parte del tronfio attore occidentale che cerca di smettere di balbettare. La messa in scena è ottima come anche il missaggio sonoro: tutto rimanda alla simbiosi tra gli uomini e la natura selvaggia che li circonda, compresi i suoni degli animali e degli insetti a fare da perpetuo sottofondo. E le intuizioni felici non mancano, a partire dal montaggio grondante cultura pop e globalizzazione per raccontare le allucinazioni della protagonista. E poi l’omaggio a Fitzcarraldo di Werner Herzog (pare che una scena si svolga nello stesso hotel del film del 1982 e che la vicenda sia ambientata nello stesso villaggio, ma, ancora una volta, niente di tutto ciò è svelato dalle immagini) e infine l’effetto psicotropo che si fa video-gioco.
Tuttavia i due registi, di parlare al grande pubblico, non ne hanno la minima intenzione. E sì che di implicazioni socio-culturali ed esistenziali – ma anche politiche ed ecologiche, se leggiamo il dispaccio di Lab 80 Film, che è riuscita a farlo approdare nelle sale italiane – il docu-film è pieno, ma i due scelgono di restare sul piedistallo dell’autoreferenzialità rinunciando a spiegare e contestualizzare il rapporto tra attori e personaggi. Ciò che ci limitiamo a vedere è ben poco rispetto a quello che invece dovremmo conoscere ed è un peccato, perché se è vero che la Caraballo e Norzi affrontano le cure di cui beneficiano senza porsi troppe domande e senza fare un passo indietro, rivolgendosi a coloro che ignorano le questioni legate agli psico-nauti, dall’altra erano sulla buona strada per filmare e raccontare al mondo la sconfitta, se non della morte, almeno dell’irrimediabile paura ad essa collegata.