Apples

di Christos Nikou

Già assistente alla regia per Lanthimos, Nikou mette in scena un racconto distopico, lunare e malinconico sulla non accettazione del dolore

Apples di Christos Nikou, recensione Point Blank

A metà tra la distopia vintage e malinconica dell’acclamato Her di Spike Jonze e il minimalismo straniante dello spietato Dogtooth di Yorgos Lanthimos potremmo, idealmente, collocare Apples, opera prima del greco Christos Nikou e film d’apertura della sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia 2020.
Quella con Lanthimos, autore radicale e spregiudicato, per Nikou non è semplicemente una assonanza esteriore o “geografica”, perché proprio per Dogtooth è stato assistente alla regia. È dal Lanthimos degli esordi infatti, squisitamente greco – più che da quello elegante ed esteticamente “levigato” dei film internazionali - che il regista sembra ereditare certi toni lividi e dimessi, l’asciuttezza quasi grottesca della recitazione terribilmente scarna, la capacità di calare il conturbante e lo sconcertante in una quotidianità che è assieme familiare e desolante. Ma con il suo maestro – se così è possibile definirlo – Nikou non sembra condividere la concezione nichilistica e senza possibilità di riscatto dei rapporti umani. Se in Lanthimos il sentimento è quasi sempre inautentico, oppure impossibilitato e inquinato - ora dalla violenza soverchiante imposta dall’esterno, ora da indicibili pulsioni tutte interne all’io – in questo film di Nikou, al contrario, l’amore è vivo e pulsante, e proprio per questo è sofferenza insostenibile, fino al punto da tentare la strada disperata, e per forza di cose fallimentare, dell’autonegazione.
A ben guardare, il fulcro del discorso – l’impossibilità dell’accettazione del dolore - è quasi un topos, un universale, un tema mille volte praticato. Ma Nikou, non senza un’ironia spaesante e lunare, ammanta la vicenda di umori distopici, inventando, quasi per trastullare lo spettatore, un futuro in cui una misteriosa pandemia causa amnesie improvvise e irreversibili a un numero impressionante di persone.

Il soggetto del film è stato scritto anni fa, in tempi non sospetti, e va letto nella sua chiara valenza metaforica. E tuttavia osservare oggi un mondo più che noto (perché la sua descrizione è del tutto esente dal fantascientifico e dal futuribile) adeguarsi e riorganizzarsi impassibile attorno all’ignoto provoca quasi una vertigine. L’ordinario ha ormai assorbito lo straordinario, il destabilizzante, l’inaspettato. Nulla di strano, allora, se un uomo alla guida lascia all’improvviso l’auto sulla strada e si accascia a terra, perché non sa più dove sta andando né quale sia il proprio nome.  Se non si hanno con sé i documenti, viene prontamente chiamata un’ambulanza e si viene portati in un apposito Centro che accoglie coloro che “hanno dimenticato”. Ricevono una divisa, un posto letto e un numero in luogo del nome che la memoria ha cancellato. Vagano in ciabatte per i corridoi lunghi e spogli di questo limbo grigiastro sperando che qualcuno, un parente, un amico, li venga a cercare. Ma se non succede?
Ad Aris, il protagonista, non accade. Entra allora in un apposito programma per crearsi una nuova identità. Gli verrà dato un appartamento - le stanze nude arredate con qualche mobile anni ’50 - e una polaroid (ma in che epoca siamo?). Dei vestiti che non sono della sua taglia. Una cesta di arance che sostituirà con delle mele, l’unica cosa che è certo di amare. Un album dei ricordi con le pagine ancora vuote: dovrà riempirlo lui, con le foto che testimonieranno le sue nuove esperienze. La voce asciutta dei medici, attraverso una serie di audiocassette, gli dirà cosa fare. Un giro in bici, un pomeriggio a pescare, una serata in discoteca, un funerale. In questo iter surreale, in questo scenario disperante e bizzarro che vuole ridurre l’esperienza a un elenco prestabilito e ponderabile di eventi - escludendone il portato di casualità e quindi di conseguenza annullandone l’autenticità – incontrerà una donna, che come lui (o meglio, più di lui) “ha dimenticato”.

L’identità è memoria, autoconsapevolezza, è la summa delle nostre reazioni agli eventi, delle nostre (in)capacità di vivere e comprendere i sentimenti nel caos informe e palpitante del vivere. Aris sogna l’azzeramento per contenere il dolore, ma anche il dolore ha un senso e un peso nel nostro orizzonte identitario, anche il dolore è indispensabile per (ri)conoscersi.
Il film di Nikou, con agilità e acume, offre delle coordinate sociali definite che si prestano a interpretazioni stratificate, ma lavora anche in profondità spostando il discorso su un territorio più intimo. Soprattutto, lo fa con un approccio stilistico assolutamente libero e disinvolto, e valorizzando la magnetica espressività minimalista del protagonista Aris Servetalis (già interprete di Kinetta e Alps di Lanthimos). 

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 17/03/2021
Grecia, Polonia, Slovenia, 2020
Durata: 90 minuti

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