Come un uomo sulla terra

No. Il treno di Point Blank non si ferma. Non vogliamo che si fermi. La quinta sosta, metabolizzata La mal’ombra, ci porta nella stazione di Come un uomo sulla terra. Lo splendido universo di Andrea Segre, carico come mai di ricerca antropologica e sociale, ha in quest’ultima fatica dell’autore veneto una riuscita complessiva che dona maturità, ulteriore messa a fuoco e un enorme passo in avanti al lavoro fin qui svolto.

L’articolo 1 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo così recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. E poi, l’articolo 5: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”.

Queste parole cariche di umana dignità furono scritte all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, nel 1948, quale vademecum da seguire per non ripetere mai più atti di barbarie perpetrati ai danni dei più deboli e di popolazioni geograficamente infelici. Incredibile annotare come nel 2005 nessun passo si è fatto nella costruzione di una moderna democrazia universale entro cui le persone di ogni latitudine abbiano potuto vivere e proliferare ognuno secondo le sue facoltà e tutti secondo le leggi di umana coscienza. Questo non solo e non tanto perché le guerre non hanno cessato di fare morti e feriti (fra l’altro sempre in luoghi che ci limitiamo a chiamare terzo mondo), ma perché le cosiddette democrazie occidentali poco o nulla hanno fatto per evitare sistematici stermini e atti di puro terrore nei confronti di popolazioni che dalla loro hanno avuto soltanto la sfortuna di nascere in luoghi preda di sanguinari despoti assetati di potere. E così nel 2005, quando in Etiopia, considerato il più antico Stato africano e il più democratico, scoppia l’ennesima rivolta che la contrappone all’Eritrea, i cittadini etiopi si vedono costretti in fretta e furia a migrare altrove, imbarcandosi in un viaggio che li porterà, loro malgrado e a loro insaputa, verso giorni di puro terrore, lì in attesa nel deserto libico dove sotto le mentite spoglie di agenti di polizia e mediatori senza scrupoli troveranno invece mostri che non si faranno problemi a venderli al miglior offerente o recluderli dentro fatiscenti prigioni prive di qualsiasi igiene e umana dignità.

Questa la crudele storia di Come un uomo sulla terra, che vede Andrea Segre al lavoro con Riccardo Biadene e Dagmawi Yimer, dove è Dag a narrarci la storia, cittadino etiope laureato in giurisprudenza che decide di emigrare dal suo paese, perché magari in Italia la vita può riservagli un avvenire migliore. Ma non sa, mentre è appollaiato insieme ad altre centinaia di disperati su una barca troppo piena e troppo precaria lungo la traversata dall’Africa al suolo italico, che è proprio l’Italia una delle nazioni responsabili non tanto di quelle violenze, questo no, ma almeno la mano che ha firmato l’accordo con la Libia, che quelle violenze incondizionate hanno perpetrato, per mano di agenti libici di Bengasi e poi ancora dai carcerieri di Kufhra. E sì, perché dal governo berlusconiano del 2005, all’insediamento del governo Prodi del 2006, entrambe le forze governative italiane hanno promesso e inviato milioni di euro di aiuti nel combattere l’immigrazione clandestina col beneplacito del Raìs Gheddafi (sotto forma di elicotteri o camion container privi di ogni umanità) con la promessa per l’Italia di estrarre gas e petrolio sul suolo libico per contratti di centinaia di milioni di euro, salvo poi non controllare che le cose andassero effettivamente così.

Dalle algide stanze dell’associazione Asinitas Onlus di Roma – si scrive scuola di lingue per stranieri, si legge splendido luogo di integrazione – Dag intervista i vari sopravvissuti a quest’odissea che porta la firma libico-italiana. Vuole capire, vuole ascoltare, ma poco ha in risposta, anche dall’allora ministro degli esteri Frattini che alle sue domande su ciò che stava avvenendo in Libia fa un’imbarazzante scena (quasi) muta. Qui Segre si fa spettatore come noi, in una sorta di mockumentary di Dag sulla vicenda, dando un respiro al narrato che non scade mai nel pietismo, ma piuttosto nella rabbia che, sì, a tratti rischia di annebbiare il giudizio, ma che vuole essere soltanto uno schiaffo per far(ci) riflettere su come sia possibile permettere che ancora nei moderni e veloci anni duemila, quelle parole vergate per non far sì che si ripetano atti di simili barbarie siano, al pari della costituzione italiana, parole al vento che nessuno rispetta e che nulla hanno insegnato ai popoli di ogni latitudine.

Autore: Fabio Ernetti
Pubblicato il 23/08/2014

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