Via della felicità
Piccola storia di emigrazione, come mille ne sono già state, eppure nessuna mai sovrapponibile a nessuna, sofferta rivoluzione di spirito e volontà
Documentario di pedinamento e scavo intimo del reale, Via della felicità della giovane regista Martina Di Tommaso , dopo la presentazione in Concorso Italiano al 58mo Festival dei Popoli, distribuito da ZaLab, ha intrapreso il suo tour di proiezioni. Tappe privilegiate, la sala Apollo 11 di Roma, città di adozione e formazione dell’autrice, e il Cineporto di Bari, città d’origine e di ispirazione, qui dove non a caso anche il film trova le sue profonde radici:la confinata e malandata periferia del capoluogo pugliese, al contempo prima via d’imbarco per l’Europa. Tale è infatti l’incipit, anche trailer del film, che raccoglie un gruppo di giovani donne dietro le cancellate di delimitazione della pista di decollo aeroportuale, a vagheggiare una via di fuga, una via per la felicità. Una chimera, un’alibi, un’illusione che per alcune di loro è già realtà o sta per diventare tale, raccolto il coraggio a due mani e fatto proprio il proposito di non voltarsi indietro. Storia di Elisa, madre trentaseienne (all’epoca delle riprese) e dei suoi ragazzi, l’adolescente Anthony e il piccolo Gabriele, pronti a raggiungere la Germania, da dove una zia da tempo decanta loro le ottime possibilità di impiego e migliori condizioni di vita quotidiana. Piccola storia, dunque, di comune emigrazione, come mille ne sono già state e raccontate, eppure nessuna mai sovrapponibile a nessuna, insondabili abissi di sdradicamento interiore, sofferta rivoluzione di spirito e volontà. Coraggio, audacia, tenacia le parole d’ordine rimbalzate indietro dal muro di gomma della lingua, una volta giunti a Bonn, ancora impronunciabile, ancora incomprensibile alle orecchie e ad agli sguardi persi nei fonemi, spauracchio insignificante... e tempo di reazione non ce n’è, già totalmente immersi nei contesti integranti e impazienti di scuola e lavoro.
Il film ha il merito (da sceneggiatura o meno) di aver traslato l’angustia linguistica vissuta dai protagonisti dal piano diegetico delle azioni riprese ( gli incontri col mediatore culturale per esempio) al piano della percezione spettatoriale, per cui mentre le immagini delle ambientazioni ci mostrano innegabilmente una evoluzione positiva ( il vantaggio di passare da pulire i servizi igienici di una scuola ad indossare una divisa curata e imbadire con stile e atteggiamento la sala di un ristorante;il vantaggio di passare dal vagabondaggio per vicoli ciechi e fatiscenti alle chiacchiere sugli investimenti immobiliari in un parco verde dinanzi a un lago cristallino) tutto cozza con la nostalgia della miseria perduta, che pure prima gremiva le loro vite. Da ciò, la scommessa della strategia di sguardo, attento e delicato, della regista che muove a squarciare proprio questa falsa dicotomia tra visibile e dicibile, cogliendo in Elisa tanto l’energia, quanto a modo proprio la dolcezza di intimare ai suoi che la nostalgia è solo una fase di svolta, superata la quale non ci sarà più altra palude stagnante in cui cadere; che i loro ruoli di forza, madre e figli, trovano conciliazione nella comune solidarietà, contro il disincanto e il disappunto viscerale che ancora li pervade, retaggio mentale di luoghi perennemente spogli di bellezza e futuro. In questi interstizi di goia e debolezza, Di Tommaso riesce a restituire in tutta la sua insostenibile ingenuità, l’esempio di un convincimento che nasce in Elisa ancor prima di partire e che non si esime mai dal mettersi alla prova (dall’addio con le amiche di sempre al confronto serrato col giovane barista italiano, emigrato per necessità e disilluso): la ricerca della felicità non può essere un trascinamento verso la meta, sarà un percorso sofferto di certo, ma dovrà assumere lo spirito leggero della benevolenza di sè, perplesso e complesso, dovrà avere il coraggio di mantenersi anche solo sollievo di "un pensiero che sa... di felicità"!.