[…]Le fluttuazioni del visibile non hanno nulla di aleatorio: rispondono ai bisogni o al rifiuto di una formazione sociale. Un gruppo vede ciò che è capace di percepire, definisce il perimetro entro il quale esso è in grado di porre i propri problemi. Il cinema è al tempo stesso repertorio e produzione di immagini. Mostra non già il reale ma i frammenti del reale che il pubblico accetta e riconosce. Per un altro verso contribuisce ad allargare il territorio del visibile, a imporre immagini nuove. [Ma]Tra l’espressione e la percezione, tra il dire e il vedere, non c’è una corrispondenza necessaria[…].
“Il Visibile” di Pierre Sorlin
Il postulato espresso dallo storico del cinema Sorlin, chiarisce il principio secondo cui “il visibile di un’epoca” sorga dall’interazione di due differenti codici iconici essenziali, quello dello specifico filmico e quello sociale, sollevando in ultima istanza la questione di una plausibile “cecità sociale” o meglio di una incapacità di vedere quello che non si è pronti o disposti a vedere. Ciò premesso, alla luce della recente cinematografia documentaria che ha sottoposto con una certa risonanza all’attenzione pubblica l’esplorazione di universi vicini, eppure misconosciuti, proprio perché relegati ai margini o fuori dell’estensione prospettica (per tutti, Sagro Gra, di Gianfranco Rosi), intuitiva sovviene una prima considerazione: ci sono immagini che gettano luce sul presente per rivelare come nell’attualità si stenti a riconoscere la perpetuazione del passato e non già il sedicente tempo futuro che ci si pre-figurava; e ci sono invece immagini che gettano luce sul presente per rivelare come nell’attualità si agiti già un futuro concreto, ma invisibile, perché negato. È quest’ultimo il caso del documentario Container 158, diretto da Stefano Liberti e Enrico Parenti, prodotto e distribuito dall’indipendente Zalab, con il sostegno di Open Society Foundation e patrocinato da Amnesty International e Associazione 21 Luglio.
Container 158 propone l’interrogazione di una determinata realtà, il “campo rom attrezzato” di Salone, il più grande d’Europa, dis-locato nelle campagne romane, alla scoperta di ciò che di tale fenomeno, pianificato per milioni di euro nella spesa pubblica, ancora si ignora. In modo pressoché costante la macchina da presa si accosterà agli abitanti del campo (un totale di 1.200 presenze, ripartite per etnie) giorno per giorno, restando sempre un passo in dietro, alle loro spalle, certo per favorire l’osservazione diretta, ma anche a rimarcare la distanza cognitiva che grava sulle comunità ancora comunemente identificate coi termini generici di “Rom” (dall’idioma romanì) o “Zingari” (nomadismo), eppure ad oggi, discostatisi dagli arcaici stereotipi (generazioni intere sono nate in Italia e hanno nell’istruzione italiana educazione e identificazione). Così come fuori dalle convenzioni contemporanee e soprattutto internazionali è la soluzione dei campi attrezzati, provvedimento (nell’hinterland romano se ne contano ben 8) che nei piani politici delle diverse amministrazioni succedutesi nella capitale ha soppiantato lo stanziamento “spontaneo”, intendendo non già la predisposizione di servizi di sorta (nel caso eclatante di Salone, i primi esercizi commerciali distano diversi Km di autostrada, impercorribili se non automuniti) bensì recinzioni perimetrali video-sorvegliate di un agglomerato di container (22 mq standard, a prescindere dalla consistenza dei nuclei familiari). Segregazione e controllo, che sono valse all’Italia la condanna del Consiglio d’Europa, ma anche vicinato forzato, perché oltre le recinzioni sorgono i pre-esistenti complessi residenziali di cittadini, ritrovatisi ora esposti alla condivisione dei terreni limitrofi (sconfinamenti nelle proprietà private e cataste di rifiuti). Uno di questi descrive la situazione come tollerabile a fatica, poi senza mezzi termini aggiunge “Non è la diossina eh! Però …”. Il parallelismo sconcertante che pone persone e sostanze tossiche sul piano dell’inquinamento ambientale, la dice lunga certo sullo spregio razziale, ma in modo involontario coglie bene l’aspetto colpevole della criminosa gestione pubblica a monte di entrambe le drammatiche questioni.
Basta la sequenza introduttiva a rivelare l’essenzialità dell’assunto sorliniano: cosa siamo capaci di percepire e quanto siamo in grado di definire (noi italiani d.o.c.) di questa realtà che ci si manifesta dinanzi? Le comunità Rom si ripresentano, quando escluse dalla cronaca nera dei media, collettività dis-impegnate, dedite a canti e balli, agli escamotage illegali, avulse dal substrato sociale. Naturale sarà, pertanto, perseverare nel pensiero unico, banalizzante e anacronistico, in cui il massimo della comprensione si spreca per quei ragazzini persi nelle periferie degradate, sottratti alla scuola! E invece correggendo la miopia superficiale si sarebbe in grado di scorgere un contesto molto più articolato di quanto i semplici pregiudizi possano ancora inficiare: è un retaggio arcaico il costume di sposarsi tra cugini e concepire tanti figli. È un retaggio arcaico preferire le baracche ad una casa vera, ai servizi terziari e all’integrazione. È un retaggio arcaico l’indisponibilità a guadagnarsi da vivere col sacrificio del lavoro onesto; così come non è purtroppo un retaggio, ma un dato di fatto, l’irrazionalità della palude burocratica in cui sprofonda l’infanzia dopo il raggiungimento della maggiore età: prima si è tutelati nei diritti inalienabili di scolarizzazione e assistenza, dopo (quindi dopo aver acquisito un determinato stile di vita sociolinguistico) si è disconosciuti come richiedenti documenti in forza dello ius sanguinis, quindi come aspiranti lavoratori. Questa è la vera apolidia esistenziale (poco conta ormai quella dei provenienti dai paesi della ex Jugoslavia, cancellati dagli atlanti politici). Stridono fortemente le sequenze dei ragazzini che hanno trovato nei temi scolastici il canale per esprimere il disagio dell’esclusione dalla vita partecipata (il bus sempre in ritardo, perché impantanato in una distanza enorme tra il campo e la scuola) e la fatiscenza del campo cui sono destinati a far ritorno, dopo aver appreso migliori condizioni altrove. I ragazzini che adoperano internet e il linguaggio visivo (topografie, fotografie, video di repertorio) per riflettere sul peggioramento dello stato di coabitazione sancito dallo sfollamento istituzionale dei campi spontanei, ove l’assenza di costrizione favoriva almeno la pace tra le diverse etnie.
Container 158 getta luce in definitiva sull’evoluzione generazionale di un popolo che, rispetto ai propri antenati, riconosce l’esigenza di una coscienza civica individuale, ma che marchiati dalle istituzioni sedicenti civili ed eticamente avanzate, può solo soffocare la lungimiranza acquisita nel paradosso del rimpianto del passato. È l’imposizione di immagini nuove di una realtà, che gli ordinamenti legislativi e di governo non sono riusciti a porre in un recinto concettuale diverso da qualcosa che somigliasse a un lager di Stato. Perché stante la problematica, questa è ancora la soluzione che si è in grado di intra-vedere.