Corti, frammenti e frazioni. La forma breve di Franco Piavoli
Una breve panoramica sul documentario corto e medio di Franco Piavoli
Continueremo a parlare di Franco Piavoli. I Sotterranei continueranno a farlo nel mese di Gennaio, e oltre, con l’intento di riuscire a coprire una filmografia nella sua interezza, seguendo una strada che si ramifica nonostante si biforchi da un unico tronco, un percorso ligneo di realtà, cinema e spirito. L’importanza del nome, per noi che tentiamo di creare una geografia del sottosuolo, è di rilevanza assoluta. E’ la terra che germoglia lo sguardo cristallino, e l’acqua che nutre le nostre cavità, è l’aria che trascina i nostri pensieri, è il fuoco che scioglie il superfluo mettendo in mostra l’essenziale. Corti, frammenti e frazioni, che ritornano dagli anni sessanta ad oggi. Corti nel metraggio, brevi quanto una pillola di saggezza che non necessità di una spiegazione, che non vuole una morale finale, ma che comunica per quello che mostra, nella sua brevità, nel suo spoglio enunciato. Nessun appiglio metodico, solo sguardo diretto ad una realtà oramai distante. Frammenti di identità che si mostrano nei loro continui primi piani. Sguardi ravvicinati per dei volti scomparsi. Troppo vecchi, troppo distanti, novecenteschi. Sguardi che si posano su dei volti che ci appartengono, che possediamo nei nostri ricordi anche se più non li riconosciamo. Frazioni di realtà, dal sapore antropologico, spaccati di una società solida. Società che festeggia legandosi alle sue tradizioni. Un paese in festa, e i volti della festa. Gli amori giovanili, gli sguardi, i balli, le corse sulle colline in bici, nella bella stagione. Domenica sera, cortometraggio del 1962, è questo e nient’altro. E’ amore, è gioia, è la vita di un paese che si riunisce, che si conosce e che, festeggiando, si riconosce. Sarebbe interessante capire l’evoluzione della festa, porsi in mezzo al passaggio dei tempi, imporre la stabilità allo zeitgeist, vedere tra Domenica sera e Festa, il suo ultimo mediometraggio, come cambia la socialità. Sarebbe interessante riconoscere che le abitudini di un piccolo paese non passano, i volti cambiano certo, non hanno più l’espressività contadina, non si vestono più degli stessi abiti, sono oramai diffusi, nell’accezione propria di un mondo sociale che tenta di riconoscersi decentralizzandosi, allargando i confini di provincia, di frazione, al mondo intero. Sarebbe interessante porsi al centro del cambiamento tra la pellicola ed il digitale, porre lo sguardo sul meccanismo di ripresa che cattura la realtà attraverso due diversi metodi di stoccaggio dell’essenza luminosa, due diversi supporti per un’unica festa vissuta e ripresa in due diverse generazioni, la generazione pre e la post social. Viaggiare sui treni a lunga percorrenza, che transitano da una parte all’altra del confine svizzero, treni per i nostri Emigranti, come il titolo dell’omonino cortometraggio del 1963. Restare in stazione, a Milano, e vedere le valigie che scendono dal treno, le persone che le trasportano, i volti che si inseguono alla ricerca di una realtà sociale, lavorativa, che travalica un confine, che trasporta le nostre precedenti generazioni verso un Paese più grande, con più opportunità, per poi tornare, sempre, al nostro, e loro, piccolo mondo antico. Un cortometraggio che non cambia una realtà imprescindibile nel nostro paese. Nonostante il passaggio generazionale la migrazione si muove su treni notte, siamo noi, sono loro, sempre gli stessi, sempre lo stesso passaggio, le stesse linee della notte che cercano una nuova luce. Un significato questo che tornerà a parlarci di transiti umani nel lungometraggio del 2007 di Pietro Marcello, Il passaggio della linea. Capire il nesso ontologico e semantico nell’accezione del termine evadere. Evasi, cortometraggio del 1964, arriva ad avere un doppio significato. Seguendo i volti del pubblico di una partita di calcio, non rivolgendo mai l’attenzione al campo ma all’uomo che guarda, Piavoli riesce a creare un doppio percorso semantico. Evasione, dalla routine quotidiana, ed evasione, da una gabbia che incarcera un tifo ed una passione. Le scene finali del post partita assomigliano più ad un’evasione carceraria, successiva ad una sommossa popolare, che ad un gioco osservato e goduto civilmente. Cosa cambia oggi. Forse nulla, forse tanto. Forse il tifo si è addomesticato. La passione è diventata da salotto, una passione via cavo, che non fa del male a nessuno. L’importanza dei cortometraggi di Franco Piavoli sta proprio nell’assonanza che creano tra un passato ed un presente così simili nell’essenza, anche se così distanti nell’operatività. Due visioni remote e vicine, imprescindibili l’una dall’altra in quanto simili e tangenti. Pure nello sguardo e diverse nel tempo che scorre. E se le modalità del mondo cambiano ad ogni generazione, lasciando inalterata l’essenza e lo spirito, solo le stagioni del mondo rimangono uguali a se stesse; prima ancora di realizzare quella meravigliosa sinfonia cosmica che porta il nome de Il pianeta azzurro, Piavoli nel 1961 realizza un mediometraggio dal titolo Le Stagioni. Le quattro stagioni, dal disgelo invernale alla vita che risorge in primavera, poi il caldo dell’estate, le prime raccolte e poi l’autunno che si colora d’arancio, che secca e prepara nuovamente all’inverno. Il cinema di Franco Piavoli segue il più antico, puro ed immutabile susseguirsi stagionale. E’ vita che ciclicamente ritorna, nasce, cresce e muore per poi tornare a vivere. E’ un cinema che segue il suo corso senza mai scomparire, riproponendosi ad ogni nuovo istante, che riprende con lo sguardo la morte inneggiando alla vita. Il cinema di Piavoli è vita che non ha paura di morire, che non può finire, potendo solo trasformarsi in altro, in essenza, in uno sguardo antico su di un mondo trapassato.