Festa

Tra scrittura etnografica e meditazione poetica, Festa riconferma l'eccezionale profondità di sguardo che appartiene da sempre al cinema di Piavoli

Girato tra il 2014 e il 2015 e presentato al 69° Festival di Locarno, Festa è l’ultimo film realizzato dal regista lombardo Franco Piavoli, che a partire dagli anni Cinquanta ha sviluppato un percorso di ricerca solido e personalissimo, ostinato nella sua coerenza, estremamente libero e radicale nelle scelte espressive, limpido e ammaliante negli approdi estetici.

L’attitudine alla contemplazione – a volte incantata ed empatica, a volte distaccata e impassibile - è forse il dato più macroscopico del cinema di Piavoli, cinema che non obbedisce a un impulso narrativo (di costruzione, racconto, azione) ma piuttosto a un’esigenza poetica, estetica e sensoriale. Non a caso, lo sguardo del regista raggiunge una profondità e una compiutezza straordinarie soprattutto quando è rivolto alla natura e al paesaggio, dei quali coglie sempre - come per istinto e apparentemente senza sforzo – la complessità del rapporto con l’elemento umano ma anche l’essenza segreta e intrinseca.

Tuttavia, anche quando il panorama posto di fronte alla macchina da presa si fa specificamente antropologico e metropolitano, l’acume e la nitidezza non vengono meno: al contrario, l’analisi si fa ancora più minuziosa, e pur senza rinunciare a una fluida visione di insieme l’autore osserva e disseziona quasi ossessivamente, isolando dettagli e particolari.

Passando al setaccio la realtà per estrarne ogni volta la bellezza più autentica, senza però eluderne le imperfezioni e snaturarne la ruvidità, il regista ha insomma messo a punto nel corso del tempo un suo peculiare linguaggio lirico, rigoroso e riconoscibile ma allo stesso tempo innegabilmente diversificato. Se nel meraviglioso Nostos (1990), che rivisitava con intonazioni visionarie il viaggio di Ulisse, la ricerca cromatica e le aperture all’onirico erano protagoniste indiscusse, Festa si annuncia fin da subito come un fecondo ibrido tra scrittura etnografica e meditazione poetica. La grammatica filmica esaudisce qui, vistosamente, la volontà di un’indagine del reale portata avanti con piglio da entomologo: primi piani reiterati, inquadrature “strette” e quasi soffocanti, dettagli preziosi esibiti e riproposti con insistenza; e, infine, come per contrasto, rari campi lunghi a rivelare l’armonia quieta e dimessa della campagna oppure il vuoto silenzioso di una piazza notturna.

Come tessere di un mosaico fitto e ampio, tante piccole, frammentarie immagini – restituite da un digitale sporco che sembra voler evidenziare la veridicità, la freschezza del reale – vanno a comporre un grande disegno. Perché Piavoli non intende descrivere una festa come singolarità contingente, ma la festa in senso lato come modus sentiendi radicato nell’immaginario collettivo. Cucendo insieme sequenze girate in luoghi e tempi diversi, il regista crea dunque una tramatura densa e compatta, mettendo a fuoco senza esitazioni una serie di precisi nuclei tematici: il substrato religioso ancora forte in una cultura che affonda le radici nel mondo contadino; la danza inquadrata nella sua natura ancestrale di rituale amoroso e sociale; l’infanzia, la maturità e la vecchiaia come universi paralleli e coesistenti; la condivisione del cibo che diventa una sorta di cerimoniale, un momento cruciale di aggregazione; infine, il bisogno di evasione e divertimento che si traduce in intrattenimento (il circo, gli acrobati, le giostre) e che sottolinea come l’essenza profonda della festa, intesa qui soprattutto in termini antropologici, sia da rintracciare anzitutto nella sua eccezionalità rispetto alla quotidianità.

E’ un film, questo, che si pone in forte continuità con lavori di Piavoli distanti nel tempo ma affini per approccio stilistico e, potremmo dire, emotivo. Lo sguardo al microscopio, quasi impietoso del folgorante Evasi (1964) che fa dei volti umani territori da esplorare, torna in Festa per indugiare sulle espressioni stupite dei bambini, su quelle stanche degli anziani, sulla soddisfazione evidente di chi ha appena vuotato il piatto o sul turbamento di chi cerca qualcuno nella folla, senza riuscire a trovarlo. Ed è inevitabile, osservando le coppie che ballano in maniera appassionata, goffa o spontanea, tornare con la mente al bellissimo Domenica sera (1962), nel quale – con un breve, malinconico e struggente collage di sguardi e passi, mani e volti – il regista ha fotografato l’atmosfera di un’epoca, mettendo nero su bianco, tra tensione e desiderio, il confronto eterno e atavico tra maschile e femminile.

Partendo sempre da una sorprendente semplicità di intenti, Piavoli riesce insomma ogni volta a mettere definitivamente a nudo la realtà, e questa messa a nudo si traduce immediatamente in una luminosa purezza che è assieme formale e sostanziale.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 06/01/2017

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