Animali selvaggi (R.M.N.)
Similmente alle "bestas" di Sorogoyen, un altro film in grado di mettere a fuoco la deriva xenofoba dell'Europa contemporanea.
Prendiamola alla lontana: nel 1947 William A. Wellman dirige La città magica, con James Stewart nei panni di un ricercatore di mercato che scopre per caso il “miracolo matematico” in una piccola cittadina, Grandview. Analizzando i comportamenti e le scelte degli abitanti, Rip Smith, questo il nome del personaggio interpretato da Stewart, è in grado di prevedere il successo di mercato di prodotti o addirittura vittorie elettorali di un intero paese.
Il piccolo villaggio della Transilvania in cui torna, in prossimità del Natale, Matthias, è un po' la Grandview con la quale Cristian Mungiu, a sei anni da Un padre, una figlia, fa il punto della situazione sulla sua Romania, cui cerca di guardare dentro, oltre la superficie, come fa la “Rezonanta Magnetica Nucleara” (la risonanza magnetica) il cui acronimo dà il titolo originale al film (ed è quasi il Codice Fiscale di Romania, se ci si pensa).È vero, Mungiu l'ha sempre fatto, ma stavolta sceglie la strada dell'apologo corale sicché il paese in cui è ambientata la vicenda si fa sineddoche della Nazione (come in La città magica) e, probabilmente, del mondo intero.Non può passare inosservato, infatti, il fatto che nella stessa edizione del Festival di Cannes, la 75ma, in cui Animali selvatici era in concorso, nella sezione non competitiva Cannes Première veniva proiettato As Bestas dello spagnolo Rodrigo Sorogoyen, che presenta più di un'affinità con il film di Mungiu. È un dato di fatto, la deriva xenofoba e nazionalista di gran parte dell'Europa, e non sorprende più nessuno. Mungiu e Sorogoyen ce la raccontano (e, una volta tanto, tocca dire che il tema, in queste stesse precise forme, era affrontato già nel 2012 da un sottovalutatissimo film italiano, Padroni di casa di Edoardo Gabbriellini).
Il regista rumeno, a differenza di Sorogoyen (ma non di Gabriellini sebbene non negli stessi termini), opta come detto per la coralità e, da questa scelta, derivano soluzioni registiche inusuali per Mungiu. Animali Selvatici manca quasi completamente di piani ravvicinati (forse l'inquadratura più stretta è una mezza figura) mentre abbondano i totali (tra cui quelli bellissimi in chiesa e durante l'assemblea cittadina), per di più in piano sequenza, e i campi medi e lunghi. L'altra novità, rispetto ai precedenti lavori, è il deragliamento di una vicenda realistica in territori magici sì da trasformare una storia metaforica in una vera e propria allegoria. La “luccicanza” del piccolo Rudi, più che un omaggio a Stephen King, pare quasi un modo, per Mungiu, di dire che la situazione europea è ai limiti del controllabile al punto che i suoi esiti suicidi possono essere “previsti” anche da un bambino. Mungiu non salva nessuno: la borghesia imprenditoriale che si compiace del suo terzomondismo per mero calcolo economico e che, in assenza di problemi economici, può permettersi di parlare di “amore” (Csilla suona la colonna sonora di In the Mood for Love di Wong Kar-wai, composta da Shigeru Umebayashi) mentre il ventre molle della popolazione, impoverito dalla chiusura delle miniere, ribolle di rancori mai sopiti tra le diverse etnie (ungherese, rumena e tedesca) presenti sul territorio (e che hanno convissuto pacificamente fin quando ce n'era per tutti), ma trova nuovi motivi di solidarizzare identificando nello “straniero” il nuovo nemico.
Ne ha pure per l'Occidente, rappresentato dal giovane ricercatore francese di una ONG cui viene spiegato come la Romania abbia fatto sempre da argine verso l'Oriente tanto temuto. Il punto è che a est dello Sri Lanka non c'è niente e i poveri immigrati cingalesi si trovano a essere il collettore terminale dell'odio di un'intera comunità. Almeno fin quando gli orsi non decidono di unirsi. Perché, come ci insegna l'incipit del film in cui Matthias è costretto a lasciare il lavoro in Germania per aver reagito violentemente a un insulto razzista, si è sempre zingari di qualcun altro. E se si decide di vivere in base a principi che, di umano, non hanno nulla, anche in tal caso gli uomini partono sconfitti perché c'è sempre chi è più bestia di noi, naturalmente.