Demons
L'opera terza di Daniel Hui mette in scena l'orrore di un trauma e la perversione del potere.
Demons è il primo film “di finzione” (definizione quanto mai semplicistica, in questo caso) di un autore che alcuni cinefili conoscono già per il pregevole Snakeskin, presentato al Torino Film Festival nel 2014. Daniel Hui presenta agli spettatori un’opera opaca, complessa, senza facili vie d’uscita: in questo senso, è un film autenticamente concettuale e sperimentale, al di là della facilità con cui questi aggettivi sono branditi da critica e discorso cinefilo. Lo è in senso pragmatico, nel tipo di rapporto che instaura con lo spettatore: Demons è un film su un’inquietudine, su uomini che perdono se stessi, e il linguaggio cinematografico si dissolve assieme ai fili della narrazione.
A un livello superficiale, Demons è la storia di un rapporto di potere e di violenza che lega un regista teatrale a un’attrice. Questo rapporto è la versione perversa di un’asimmetria di potere e di sguardo: un provino durante il quale il regista mette la donna in una posizione di crescente disagio. L’incontro si svolge in una stanza chiusa, ma i due non sono soli: un pubblico impossibile osserva dall’esterno e contribuisce a inchiodare la donna ad una posizione di debolezza. Il rapporto tra i due si fa sempre più inquietante, fino a giungere ad un punto di rottura e a un improvviso riscatto: la vittima decide di lottare e si trasforma, infine, in carnefice.
Daniel Hui mette in scena il meccanismo che porta alla realizzazione di un’opera d’arte, film inclusi: un microcosmo non esente dalle perversioni della società in cui si svolge, da violenza e sessismo. Me Too ha reso questo fatto ovvio anche a chi non ha saputo o voluto prestare attenzione a tutto questo. Non è un caso che il protagonista si chiami proprio Daniel, e che sia a sua volta interpretato da un regista teatrale (Glen Goei). Hui ci parla dello specchio oscuro del fare arte, del potere di un autore, e Demons sembra un modo per esorcizzare alcune delle contraddizioni intrinseche nell’atto di creare e fare arte.
L'autore rappresenta il rapporto tra i protagonisti attraverso un vortice di visioni, strappi, lacerazioni nel tessuto del linguaggio cinematografico: non esiste più una trama, quanto una memoria traumatica di emozioni e violenze attorno a cui Demons e lo spettatore costruiscono una traccia di senso. All’autore non interessa raccontare una storia quanto mettere in scena una precisa sensazione, uno stato fisico: Demons è la messa in scena, necessariamente caotica e instabile, del trauma. Il trauma di una vittima e di un carnefice, del loro progressivo sovraimporsi. Una violenza che non ha parole per essere descritta o messa in scena. Al trauma si può arrivare solo per successive approssimazioni, in absentia: il flusso di immagini di Demons è pieno di ellissi, jump cut, citazioni cinefile, improvvisi cambi di registro. Hui è un regista che si muove sul confine poroso tra documentario e finzione e che qui va a toccare i linguaggi del teatro e della fotografia, gli stilemi del documentario e del body horror arrivando fino all’incubo lynchano, con vertiginosa mobilità che non è esente da effetti volutamente grotteschi e una spiccata autoironia.
Nel corso del suo ultimo atto, la natura intimamente teatrale di Demons si rivela nella sua forma più pura: una performance urbana, una processione notturna di uomini in maschera, membri di una setta cannibale. Siamo nel rimosso della civiltà e della psiche urbana di Singapore. L’uno nell’altra, i corpi si con-fondono grazie alla magia del cinema. In questa sintesi finale, Daniel rivela di essere parte di ognuno di noi: il suo cannibalismo è quello di una intera civiltà e richiama il cannibalismo confuciano di cui scriveva Lu Xun nel suo Diario di un Pazzo: la società è un patriarcato spietato che divora i suoi figli. Daniel Hui mette a nudo la schizofrenia di una civiltà, forse di ogni civiltà, e e il trauma, da personale, si fa condizione universale. Questo è, forse, l’aspetto più interessante e originale del film, ed è un vero peccato che il regista non lo abbia sviluppato fino in fondo: la grande allegoria sociale di Demons è appena accennata, messa da parte da una messe troppo abbondante di suggestioni e idee da comunicare e mettere in scena.