Small Hours of the Night

di Daniel Hui

Il nero invade lo schermo, una fioca luce illumina il volto di un uomo seduto a un tavolo. Il fumo che scaturisce dalla sua sigaretta macchia l’oscurità, uno sguardo in camera e siamo lì anche noi. Pochi secondi dentro il film e le intenzioni del regista sono ben precise: non sei un semplice spettatore.

Small Hours of the Night - recensione film HUi

C’è una donna, e c’è un uomo. Il bianco e il nero. La luce e l’oscurità. Un mondo che brucia e cade ai confini della storia.
Presentato all’ultimo International Film Festival Rotterdam e in concorso alla sessantesima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Small Hours of the Night è il quarto lungometraggio del regista singaporiano, Daniel Hui. Un film in grado di eviscerare dalla memoria i drammi che scandirono la conquista dell’Indipendenza di Singapore, donando spazialità al dolore e trasformando una stanza buia nell’anticamera materiale di un paese sommerso dal sangue.

Il nero invade lo schermo, una fioca luce illumina il volto di un uomo seduto a un tavolo. Il fumo che scaturisce dalla sua sigaretta macchia l’oscurità, uno sguardo in camera e siamo lì anche noi. Pochi secondi dentro il film e le intenzioni del regista sono ben precise: non sei un semplice spettatore.
La voce fuori campo di una donna irrompe e spezza il silenzio, è il racconto di un tempo passato e la memoria di un amore perduto. Quello di un amante brutale, schiavo di regime e pedina senza volto del male; cieco esecutore di un Potere inviso ma inespugnabile, carnefice e portatore di un odio atavico che racconta con il sangue la nascita di uno stato. Storie che si intrecciano nei ricordi della donna, a volte narrati direttamente da lei, a volte restituiti dalla sua voce filtrata attraverso un registratore comandato dall’uomo, come una voce dall’oltretomba in un tempo indefinito. Ma una una scritta su schermo nero ci annuncia che siamo alla fine degli anni 60, l'incontro è un interrogatorio e l’uomo è l’estensione fisica del governo, non pone domande ma ascolta la voce di lei – dalle sue parole intuiamo, senza averne la certezza, che i due si conoscono. L’uomo guarda in camera, ci interroga con lo sguardo, non esiste controcampo. La nostra voce è quella della donna, rotta dal dolore per la prigionia e preoccupata per la sorte dei suoi cari.
Bianco e nero, i colori primari di questo proto-noir; un film in cui la narrazione si fa racconto e ricordo, dove è il lento oscillare di una lampada a rompere il buio per riportare alla luce gli orrori passati. Una verità che danza negli angoli più reconditi della stanza-paese, incroci di parenti che portano alla memoria le angoscianti illusioni ottiche catturate da Chantal Akerman in Hotel Monterey. Figure che si stagliano sui muri come in un teatro di ombre cinesi, crimini non mostrati ma restituiti dalla mente-proiettore della donna – la finestra sul mondo che trasmuta nel negativo di una pellicola - simbolo delle minoranze di estrema sinistra che subirono le atroci rivendicazioni politiche e razziali del potere vigente.

pesaro 52

È la storia riconsegnata a e dalla luce, che rompe l’oppressione dell’oscurità e la claustrofobia del formato usato da Hui, un 4:3 simbolo politico ancor prima che artistico, ben lontano dalle velleità arthouse degli ultimi tempi.
Immagini che si fondono e mutano in un mondo invaso dalla pioggia, una goccia che si unisce alla cenere sul pavimento è il sangue di innocenti che si amalgama alla terra. Un vetro-schermo che restituisce un mondo al di fuori che sembra bruciare, in un tripudio di forme e ombre sfocate che ricordano i lavori di Stan Brakhage. Eterogenee e liquide, immagini restituite e primarie che scandiscono la prima parte del film. Una lampada che gira vorticosamente – quasi il flash di una macchina fotografica - e finalmente il volto della donna che emerge dall’oscurità.

Una seconda parte che sarà perfetto controcampo della prima, una luce quasi malefica che permea lo schermo, la donna seduta su una sedia e il suo corpo martoriato dalle torture. Si guarda intorno, l’uomo è sparito e la sua voce arriva da un posto indefinito, noi siamo lui. La stanza rimane, forse la stessa, ma se prima il binomio risultava essere stanza-luogo, adesso diviene stanza-tempo. Un orologio che segna sempre date diverse ben precise, coordinate di sommari processi politici a esponenti del partito comunista. Crimini minori sentenziati con condanne a morte sommarie, uno stato che nasce sui corpi di innocenti.
Un bucolico finale e la figura di lei, inquadrata con un campo lunghissimo, che pian piano si immerge nelle acque di un lago. Un ritorno al brodo primordiale che sembra essere, agli occhi del regista, l’unica via di salvezza da propri ricordi e da un futuro ancor più incerto.


Il regista singaporiano sembra aver imparato al meglio la lezione di Joshua Oppenheimer e del su docu-film The Act of Killing, presentato nel 2012 al Telluride Film Festival. Nel quale, i diretti esecutori dei crimini della purga anticomunista, avvenuta in Indonesia tra il 1965 e il 1966, restituivano le immagini di quegli orrori mettendoli in scena attraverso l’utilizzo dei loro generi cinematografici preferiti (gangster, western etc.). Ed è attraverso l’espediente del noir, dei suoi colori primari bianco e nero, che Daniel Hui mutua il racconto della Storia, senza mai mostrare ma lasciando che le immagini arrivino a noi da una dimensione altra.
Small Hours of the Night è un film che non lascia scampo a nessuno, personaggi e spettatori. In grado di rimanere rigorosamente fedele a sé stesso nel suo essere estremamente politico, e nettamente al di fuori da discorsi e logiche di mercato. Un film-manifesto che con coraggio dichiara le sue intenzioni e si pone di fronte allo spettatore – diventando, a tratti, quasi un’istallazione – nel tentativo di risvegliarlo dal suo letargo.

Autore: Emanuele Polverino
Pubblicato il 20/06/2024
Singapore 2024
Regia: Daniel Hui
Durata: 103 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria