Last Things
Mappatura di un mondo non-umano e non organico ma instancabilmente vivo, un film che lavora a metà tra documentario e science-fiction, ode al mondo dei minerali, delle rocce, della dimensione più concreta e reale del mondo che ci circonda, tra passato e futuro oltre la nostra estinzione. In concorso al INLFF.
La Via Lattea di Hershel ruotata di 90 gradi, un orizzonte stellare che diventa soggetto verticale in posizione eretta, con arti inferiori puntiformi e tronco lucente. L’immagine che apre il documentario sperimentale di Deborah Stratman è una torsione di verità scientifica, una rivoluzione copernicana compiuta digitalmente, per proporre all’occhio dello spettatore un’alternativa inattesa alla fine del mondo. Ma anche al suo inizio: “tutto ebbe inizio con un grande sì”, il verbo che compone la materia, la formalizza e le conferisce il ruolo di prima creatura in moto, vivente. Egocentrismo, narcisismo cosmico, il lavoro della regista americana politicizza la nostra incapacità di pensarci co-protagonisti di uno spazio che ci precede e durerà dopo la nostra estinzione. L’antropomorfizzazione dell’universo che apre questa nuova metafisica formato mediometraggio non è infatti un tentativo di far assomigliare l’universo all’uomo ma, al contrario, la creazione di una nuova figura narrante, la rappresentazione di un Altro-vivo ma apparentemente privo di vita. Last Things parla di minerali, rocce, materialità essenziale - per usare le stesse parole della regista - del fascino di quel “delizioso snack caramellato” della geo-biosfera. Ed è anche simbolo di un nuovo ecosistema, quella silhouette luminosa: un approccio narrativo non dominante nei confronti degli altri, la profezia di una costellazione egualitaria di forme di vita e intenti.
Vincitore del Prix du Court-Métrage al Cinéma du Réel, ma in viaggio dall’inizio del 2023, partendo dal Sundance per passare alla Berlinale e concludere il suo giro di boa a Concorso de INFF - Inlaguna Film Festival, Last Things è figlio maturo del precedente On The Various Nature Of Things del 1995. Dagli anni ‘90 a oggi, la regista esplora il rapporto epistemologico dell’uomo con la natura più dura e inaccessibile, premendo la camera contro le pareti liminali delle nostre facoltà percettive e insieme contro l’inscrutabile superficie delle cose. Via via per ordini di grandezza, ci vengono mostrati oggetti, stanze, corridoi, centraline, pareti rocciose, sculture, una galassia di immagini che il nostro occhio nudo cattura con facilità; e poi immediatamente dentro la materia, la camera diventa occhio potenziato per accedere da vicino alla sfera intima del regno minerale. Cristalli iridescenti si muovono lungo la cornice dello schermo, squarciano la superficie monocromatica eleganti motivi frattali. Ma ancora, dettagli dei paesaggi lunari e sciami di condrule di origine solare, per poi passare ancora di grado a squisiti studi formali, tavole geometriche, planimetrie e scheletri bidimensionali per vivisezionare didatticamente la materia apparentemente inerte. Un footage che passa per il microscopio cinematografico: zoom, ralenti e distorsioni visive operate per trasformare l’ignoto in superficie intellegibile.
L’elemento più interessante dell’operazione è però il montaggio sonoro, pensato per conferire vita all’immobile e, ancor di più, per catturare la natura del suono/rumore che potrebbe generare un minerale agendo nel mondo. Le musiche di Brian Eno e Okkyung Lee sintetizzano la pietra e i cristalli attraverso onde vibranti e propulsivi segnali alieni, una struttura spettrale e disarmonica che restituisce perfettamente la dinamica fisica di creature non-organiche.
Ispirato a due novelle di J.-H. Rosny (i fratelli belgi Boex) il progetto mescola science-fiction e documentario per costruire, sulla base delle scienze dure, una nuova metafisica. L’apparato di studi che regge il testo filmico è fittissimo: dagli scritti di Roger Caillois sulle pietre a L'ora della stella di Clarice Lispector, dalla teoria dell'evoluzione minerale di Robert Hazen alla teoria della simbiosi di Lynn Margulis, dagli scenari multi-specie di Donna Haraway alla ricerca di Hazel Barton sui microbi delle caverne fino al pensiero di Marcia Bjørnerud sull’alfabetizzazione temporale. Il capillare montaggio teorico di Stratman fa capo a un unico manifesto: il decentramento dell’essere umano dal processo evolutivo, e insieme la rivelazione – grazie alla matrice finzionale dal sapore ultraterreno - che le particelle minerali capeggiano un popolo alieno, alterità misteriosa cui confrontarsi.
Ma i minerali sono anzitutto superfici testuali per la Stratman, archivi immortali di una storia lunga 13 milioni di anni. Le immagini dei disegni rupestri suggeriscono la duttilità della materia alla conservazione del patrimonio memoriale dell’universo, un database analogico infinito che, nel paradosso della natura mortale dell’uomo, offre invece dispositivi di immortalità o, meglio, di lunghissima conservazione. L’amara consolazione dell’imperitura vita dei minerali arriva dalla regista come un invito curioso alla scoperta di questa categoria vivente sottovalutata, suggerendo una modalità di ascolto e apertura del sé del tutto innovativa. E lo fa con una costruzione narratologica aperta: il montaggio degli elementi che costituiscono il film è del tutto sincretico, una mappa geografica priva di gerarchie. Il viaggio dell’eroe si trasforma in costellazione episodica, e il procedere temporale è scandito esclusivamente dai salti tra un’immagine e un’altra. Un nuovo ordine, quindi, un nuovo modello conoscitivo e di eredità che fa della postura dei minerali, rivolta a un tempo indeterminato, un mantra contro le contingenze, un nuovo rapporto con i segni come firme di un io imperituro.