Deepwater - Inferno sull'oceano

Berg firma un film conservatore lucidamente celebrativo, poco incline all’approfondimento e all’analisi razionale ma capace di restituire con efficacia l’eroismo di personaggi comuni.

Dopo molte, e spesso poco convincenti, trasformazioni, il cinema di Peter Berg sembra aver trovato con Deepwater – Inferno sull’oceano la sua forma migliore, o per lo meno quella più coerente con il proprio impianto retorico. Il risultato è un cinema conservatore lucidamente celebrativo, certo poco incline all’approfondimento e all’analisi razionale ma capace di restituire con semplice efficacia l’eroismo di personaggi comuni strappati alla loro quotidianità.

Il percorso è quello intrapreso col precedente Lone Survivor, di cui Deepwater sembra una naturale estensione di sguardo e intenti, e si cuce addosso al corpo di Mark Walhberg, ex hard body più gonfio che plastico, innesco per la rappresentazione di un coraggio e di una morale WASP che Berg pone al di sopra di ogni altra cosa. Quello che importa a Berg è raccontare l’ordinario che si fa straordinario, una focalizzazione personalistica che gli permette di ignorare bellamente la componente ambientale e secolare del disastro, per concentrarsi unicamente sull’aspetto umano della vicenda.

Fedele a quest’idea di cinema come racconto morale del sacrificio, Berg punta tutto sull’iperrealismo dell’immagine, sulla ricostruzione fedele degli eventi che segnano l’inizio del disastro. Dalle riprese impossibili dei condotti petroliferi – praticamente gastroscopie di un organo che si estende sopra e sotto l’acqua, dentro e fuori la terra – all’inferno di fuoco che avvolge l’intera piattaforma, Deepwater restituisce con forza sorprendente le condizioni estreme vissute dagli uomini e donne presenti a bordo, mentre condanna fermamente il comportamento dei dirigenti responsabili del disastro, che svettano come aberrazioni in quella griglia morale a cui Berg riconduce il proprio patriottismo. Tuttavia, per quanto realistica e spettacolare sia la resa voluta, il valore e l’identità di un film simile si colloca con più naturalezza nel canone del genere disastroso più che del resoconto cronachistico.

Troppo resta fuori dall’immagine, relegato a didascalie sbrigative che certo non possono riassumere la portata degli eventi evocati, mentre quanto entra nel racconto viene gestito senza alcuna problematicità, senza nessun interesse nel bilanciare la dimensione micro del ritratto umano con quella macro propria del disastro petrolifero e di tutto ciò che ad esso rimanda (contraddizioni e rischi di un modello di sviluppo, responsabilità civili e morali, impatto ambientale). Fosse stato un film di Eastwood interpretato da Tom Hanks avremmo probabilmente avuto qualcosa del genere, l’accoppiata formata da Berg e Walhberg si accontenta invece degli aspetti più superficiali ed effettistici dell’accaduto.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 02/11/2016

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