Già c’è stato modo, su queste pagine, di approfondire la conoscenza di Andrea Segre, regista e documentarista veneto. I Sotterranei ne hanno attraversato la filmografia, sviscerato tematiche e stili, giungendo al culmine di un’analisi con in mano una definizione, per quanto aleatoria, a nostro modo di vedere convincente, di regista/antropologo. Andrea Segre è un viaggiatore, uno di quelli che il mestiere non amano praticarlo nel teatro di posa quanto sulla strada, dai primi documentari fino all’esplosione del cinema di finzione e di poesia con Io sono Li. Dalla retrospettiva restò fuori – per possibilità più che per scelta – Dio era un musicista, lavoro del 2004 firmato a sei mani con Cristina De Ritis e Maddalena Grechi, su iniziativa di Stefano Marcato, musicologo che da anni risiede in Senegal, nel tentativo di portare avanti una produzione musicale locale improntata secondo i nobilissimi principi del mercato equo e solidale.
Un musicologo. Figura professionale che immediatamente ci cala nell’atmosfera del lavoro, che riprende, scruta, ispeziona, le varie realtà musicali di un paese floridissimo – almeno da questo punto di vista – di ricchezze. Si narrano così le storie di Ismael e dei “G. Y. Kounek”, degli “Africa Matimbo” e degli “Africa Bamba J”; intraprende così una riflessione sui generi che connotano la loro musica e si fa pretesto per raccontare la vita nel paese, correndo da Dakar a Touba, la città santa, scavalcando i confini per arrivare fino ad una cittadina del Gambia che ha accolto Ismael, rastaman senza radici, figlio della sua musica. Dio era un musicista è un documentario privo di fronzoli, che restituisce una serie di situazioni che – seppur individuali – aiutano a far sì che il nostro sguardo riesca ad abbracciare molto più del mostrato, ci incuriosisce ben oltre la nostra passione per la musica locale, ci attrae a sé, magneticamente, senza che il motivo di tale fascinazione ci si presenti davanti in tutta la sua essenza. È questo un lavoro che ci aiuta a porci nuove domande su una realtà che – evidentemente – tutti noi conosciamo e della quale in un modo o nell’altro, tutti ci sentiamo complici. Ma la musica non è passatempo né divertimento, non è guadagno economico né riscatto sociale, la musica è emancipazione, progresso, risveglio culturale. Parla Hadja, moglie di uno dei tanti protagonisti; la vita trascorsa nel suo salone di bellezza a Dakar, è la realizzazione della sua fuga da una vita imposta, da un mestiere scelto dai genitori. Suo marito è l’uomo che ha sempre sognato d’incontrare, ma suo marito è anche i luoghi da cui l’ha portata via e quelli in cui l’ha condotta, suo marito è il suono dolce della sua musica e le risate con le amiche che la nuova vita le ha portato.
Dio era un musicista è quindi un film che nasce con un intento e non lo fallisce: ci fa conoscere la produzione musicale dei luoghi prescelti, ci lascia capire come questa possa essere tramite per arrivare all’obiettivo, che non sempre – o quantomeno non solo – ha l’effige di Benjamin Franklin e la scritta In God we Trust stampate sulla sua faccia. Ma il percorso che conduce a tale intento è costellato di tangenti, così che la meta si faccia solo una delle tante tappe.