Dio esiste e vive a Bruxelles
Dalla Genesi all'Esodo, il vangelo secondo Jaco Van Dormael in chiave grottesca e postmoderna. Con inesauribile passione.
Cosa fareste se conosceste in anticipo il countdown della vostra dipartita? Perchè "Dio è un bastardo e tratta male moglie e figlia" ci dice l’universo artificiale di Jaco Van Dormael, giocato dentro un prologo esilarante (in voice over) che riporta allo stupore dell’infanzia e alla Amélie Poulain di Jean-Pierre Jeunet. Ma il dio iracondo di Benoît Poelvoorde non vive nell’elettrizzante Parigi, bensì in una Bruxelles grigia e maligna: dove con cinismo passa le sue giornate davanti al computer a decidere i destini dell’umanità, tanto perfido quanto vile nel godere del male assoluto perpetrato contro i deboli, i bambini, gli ’sfigati’ unti dal Signore. Una situazione belligerante a cui però si ribellerà la figlia Ea, per cambiare le carte in tavola e riscrivere il vangelo tra motti e citazioni iconoclaste (come il gorilla in Max amore mio di Nagisa Oshima), sentenze e personaggi così bizzarri eppure efficaci da esplodere sullo schermo. Sei nuovi ’apostoli’ che frequentano locali a luci rosse, hanno braccia di porcellana e un passato da serial killer, sono insoddisfatti dell’amore o di una vita che rasenta l’avarizia. Uomini e donne filtrati attraverso un linguaggio che privilegia il paradosso, l’anticonformismo, la visione quasi onirica che possieda come folgorante cambio di prospettiva la materializzazione dell’incubo peggiore di tutti: la data della nostra morte.
Cinque anni dopo Mr. Nobodi (dove l’esistenza era invece frutto di casualità e di scelte ’terrene’), il regista belga mescola genialmente sacro e profano in uno strabordante assunto biblico che dalla Genesi all’Esodo rilegge un immaginario espanso, in chiave grottesca e post-moderna. Un vero e proprio Nuovo Testamento frutto della verve incontenibile di Van Dormael, teso ad osservare un mondo ’umano’ in cattività che abbia tutti i connotati e gli strumenti per divenire un oggetto di culto. Per una commedia freak – ora visionaria, ora solo kitsch – messa in scena con una consapevolezza mai castrante, perché esclusa da ogni possibilità di riferimento diretto alla religione cattolica. Qui Dio è un’icona, un surreale triste misantropo, che la macchina comico-immaginifica conduce lontano dalla realtà pure restando saldamente ancorata ad un’epoca in cui il fanatismo sociale (vedi l’Isis) sancisce ’santi’ o ’peccatori’. E dall’irriverenza sulle sacre scritture, Dio esiste e vive a Bruxelles si apre sui territori inaspettati dell’amore e dell’altruismo per colorare il mondo di nuova speranza; all’interno di un’avventura moralmente (ri)formativa fatta di fulminanti intermezzi, incursioni nel fantastico, sospensioni oniriche, fino a disegnare un percorso umano punteggiato labilmente dal calvario. Nondimeno, l’imprevedibità di Poelvoorde e Pili Groyne (Ea) sanno muovere il riso e il pianto, anche quando il loro viaggio in una Terra ’sconosciuta’ incapperà nella disputa divina per il controllo del comando spirituale. Inutile allora muovere critiche alla stravaganza del risultato, a una sceneggiatura dagli scenari estremi che non si accontenta di giocare con la forma ma inneggia ad un credo femminista tutt’altro che privo di senso. Arrivando addirittura a citare Fellini, Terry Gilliam ed un cinema letterario che chiama a raccolta perfino il Cantico dei cantici.
Bagnato da un’ironia molesta e un pò naif, sono la tenerezza e il candore in Dio esiste e vive a Bruxelles a smorzare le cariche eversive delle battute iniziali per finire col battere una strada più ordinaria e meno burbera sull’identità satirica del film. Una fruizione dei toni molto piacevole che non dimentica le impervie strade che conducono una bambina verso la crescita, tanto vitale ed espressiva da opporsi al padreterno quanto forte nel solcare un’arcobaleno luminoso sull’orizzonte horror degli eventi. Un caos teologico in cui Van Dormael conferma di stare a pieno agio, come un funambolo in perfetto equilibrio, regalando qua e là provocazioni irresistibili senza mai compromettere l’intento e l’ambizione. Il suo è uno sguardo che in un modo o nell’altro rivela una visione ’giocosa’ delle cose, dove far uscire l’anima anarchica di una cineasta che ama il colpo a effetto, le scelte musicali invadenti, l’ingenuità degli adulti, la saggezza dell’infanzia, un paesaggio colorato e stralunato tipicamente umanistico. E se il traguardo tecnico è notevole, lo è ancor di più la sua chiave allegorica rivolta a un clamoroso atto di fede: abbandonare le sedicenti certezze nonché i preconcetti velleitari sul Bene e sul Male, per mutare il proprio destino e affidare agli uomini la responsabilità diretta della propria felicità. Una manna dal cielo di straordinario coraggio.