Divergent è un’opera che non ha bisogno di critica: troppo elefantiaco per essere influenzato da giudizi di merito – spesso timidi e servili, fiacca rielaborazione di cartelle stampa e relativismo economico – il film si accontenta di applicare formule già note ed essere poco più che una ricerca di mercato in forma cinematografica. Una grande macchina ben rodata. Come Enron: too big to fail. Il sequel è già in lavorazione e la strategia commerciale dietro l’adattamento letterario dal romanzo di Veronica Roth rende il film una sicura fonte di profitto. Bello o brutto che sia, Divergent è un evento, un’esperienza, un buffet nella confusa dieta di immaginario cui tutti noi ci sottoponiamo. Ma esiste davvero, un pubblico, per Divergent? Il ragazzo, l’adolescente che rappresenta il più ovvio fruitore del film diretto da Neil Burger, è la risposta più scontata. Il film presenta tutte le marche esteriori dell’intrattenimento d’evasione, dello spettacolo e del messaggio a portata del pubblico più giovane: un futuro immaginario, una giovane adolescente ribelle e pronta a lottare per difendere la propria unicità divergente da un rigido sistema di caste e dall’ossessione del controllo, una storia d’amore conforme al canone di Twilight, grandi effetti speciali e azione a volontà. Eppure, pare che il film si preoccupi innanzitutto di parlare a se stesso, per convincersi della propria esistenza e solidità. Il compito è arduo: i temi e la storia sono derivativi, allineati senza ispirazione, e la sceneggiatura raramente si preoccupa di giustificare il continuo ricorso ad espedienti e colpi di scena. La protagonista (Shailene Woodley) è una ragazza che fallisce il test attitudinale che avrebbe dovuto assegnarle una classe di appartenenza tra le cinque che sorreggono la società, stabilita attorno alla città-stato di Chicago. Lei sfugge alle classificazioni, è unica e dunque pericolosa. Nasconde il suo segreto e sceglie di unirsi alla casta degli Intrepidi – soldati e poliziotti al tempo stesso. Una serie di prove stabilirà se sarà in grado di entrare nel gruppo. La ragazza si innamorerà di un giovane Intrepido (Theo James), ma un colpo di stato è all’orizzonte e la propria identità di Divergente le permetterà di salvarsi e di lottare contro il potere.
In fondo, quello di Neil Burger è un teen movie dove il college è camuffato da base di addestramento militare, nel quale la fantascienza non va oltre il timido tentativo di costruire un futuro semplice e schematico nel quale dispiegare la solita storia di crescita, amori e tradimenti. Il nemico, qui, è rappresentato dalla casta degli Studiosi, i manipolatori in possesso della conoscenza necessaria a mantenere le redini del potere. Il conflitto tra ribelli e istituzione prende progressivamente la forma di uno scontro generazionale. Purtroppo, regia e sceneggiatura perdono l’occasione per riflettere più a fondo sulla natura di questo potere e, soprattutto, sulla rappresentazione del potere in forma visiva e cinematografica. Il tutto si regge su premesse troppo fragili, e quando Divergent alza la posta in gioco i nodi vengono al pettine: le ragioni dell’antagonista sono confuse e risulta difficile essere coinvolti nella lotta per la libertà. I personaggi secondari sono appena abbozzati, e il pesante sbilanciamento narrativo a favore della componente romantica della storia penalizza ulteriormente il mondo nel quale si svolge questa storia di crescita, lotta e libertà. Da tutti i punti di vista, Divergent prova a ripetere pigramente la formula di Hunger Games virandola ulteriormente verso il pubblico Young Adult, e fallendo. Divergent poteva salvarsi puntando strategicamente sugli elementi del libro più consoni a un adattamento cinematografico. Burger avrebbe potuto costruire un solido film di genere senza rinunciare all’appeal sul pubblico più giovane. Sono troppe le occasioni perse. Il design artistico e scenografico è generico e blando: la base militare è una sorta di capannone con tanto di dirupo per giustificare comodamente salti nel vuoto e scene d’azione. La città stessa pare poco più di una serie di livelli videoludici a metà tra Mirror’s Edge, Bioshock e Fallout 3. Le sequenze più narrative sono recitate con scarsa ispirazione e inquadrate con sovrabbondanza di primi piani che eludono qualsiasi sottigliezza di linguaggio cinematografico, mentre quelle d’azione sono generiche e, in mancanza di regia, dipendono dal solito montaggio ultraveloce. Dunque, il film non parla del futuro (e dunque del presente), ma di se stesso e dell’immaginario sociale e cinematografico che attribuisce al suo pubblico. Meglio: parla a se stesso. Esiste davvero, il pubblico? È lo spettatore, o meglio il suo ruolo, ad essere ridotto e minacciato da un’idea di cinema così ingombrante, eppure cava, che occupa spazio senza creare senso e lasciare spazio di manovra per lo sguardo. La vera colpa del film sta nella banalità del vuoto che erige, nel modello altrettanto piatto e passivo di spettatore che presuppone. Divergent lo lusinga e lo parcellizza come preziosissima fetta di mercato da assecondare, e nulla più. In attesa del prossimo episodio, del prossimo spettacolo.