Doraemon - Il Film
Un viaggio nella terza dimensione del mondo di Doraemon, un'operazione solo per appassionati nostalgici e bambini.
Chi è stato bambino dagli anni settanta in poi non farà alcuna fatica a ripescare dalle proprie tracce mnemoniche la figura di Doraemon, divenuta una vera e propria icona e un personaggio di culto nell’immaginario collettivo legato all’infanzia. Dal 1969, data in cui la penna di Fujiko F.Fujio partorisce il celebre gatto spaziale, al 1996 – anno della scomparsa dell’autore – le storie create sono state più di 1300, tra manga e serie animate da circa 500 episodi, accompagnate da un hype progressivamente in crescita grazie anche a videogiochi e merchandise. Un percorso di crescita incrementato ulteriormente dall’uscita di vari lungometraggi di animazione nel corso degli scorsi trent’anni, ultima dei quali la prima fatica del Fujiko Movie Studio realizzata interamente in computer grafica e in 3D e diretta da Ryuichi Yagi e Takashi Yamazaki, Doraemon - Il film.
La storia ripercorre le giornate dell’indolente Nobita, bambino di dieci anni costantemente bersagliato dai bulli Gian e Suneo e perdutamente infatuato della sua migliore amica Shizuka.
La sua natura pigra lo destina però a un futuro di insuccessi. Per evitarlo arriva in suo soccorso Doraemon, un gatto robot proveniente dal futuro, che, grazie alle diavolerie dei suoi chiusky (gadget dotati di diversi poteri), cerca di aiutare Nobita a superare le sue debolezze.
Il lungometraggio, nonostante una primissima parte abbastanza convincente, non eccede certo in brillantezza. Costruito dal duo Yagi-Yamazaki, Doraemon – Il film è un prodotto che non convince fino in fondo; il cui target di riferimento – ovviamente – è un pubblico in larga parte composto da bambini, anche se il reiterato slogan “Un film per grandi e piccini”, affibiato indistintamente a tutte le opere di animazione che vengono prodotte per il grande schermo, è stato immediatamente assegnato anche a quest’opera. Il film si lascia anche seguire, ma spesso emerge una basicità – o si dovrebbe piuttosto parlare di piattezza? – a livello strutturale che porta a un affossamento dell’interesse dello spettatore nei confronti dell’oggetto filmico. E a poco servono i viaggi nel tempo, i fantasmatici giri di giostra dei travelling 3D-oriented sopra la città, l’epidermica simpatia che suscita in noi il gatto robot.
L’impressione è che ciò che risulta più interessante in Doraemon è ciò che si trova in superficie – e non nel nucleo dell’opera –, nella patina di cui si è dotata piuttosto che nella sua essenza. L’impianto visivo può anche funzionare, qualche movimento di macchina interessante e qualche inquadratura ben realizzata, perfino due o tre stacchi di montaggio originali; ma i tessuti ancora accettabili di questa scorza nascondono la povertà di ciò che dà loro motivo di esistere: la narrazione. Gli eventi che si susseguono, ispirati a quattro episodi del manga, sono portati avanti da personaggi dalla caratterizzazione fin troppo macchiettistica (anche per un cartone), di cui ci si stufa presto perché eccessivamente prevedibili.
Tutta l’azione narrativa del protagonista Nobita orbita intorno a una sua patetica quanto puerile quanto “reazionaria” ossessione nei confronti di Shizuka. O meglio, nei confronti del prospetto di sposarla il prima possibile. Senza esagerazioni, per più di novanta minuti – durata già particolarmente corposa per un film d’animazione – il bambino non fa altro che parlare di matrimonio come sua unica ragione di vita, e anche l’aiuto al tempo stesso salvifico e dannoso di Doraemon sembra indirettamente finalizzato a far convolare a nozze i due.
Il processo di riappropriazione della consapevolezza di sé per Nobita passa attraverso l’aiuto prestato dal gatto e dai suoi chiusky. Questi supporti facilitano sì il rapportarsi del bambino alla vita sociale, ma rivelano ben presto la loro natura di simulacro, e, proprio nel rendere evidente la loro vacuità, attivano la presa di coscienza della necessità di un cambiamento reale nella vita di Nobita, per consentirgli di raggiungere l’unica cosa che può renderlo felice: il matrimonio con Shizuka.
Ed è nel battere ossessivamente su questo tasto e sulla caratterizzazione eccessivamente patetica del protagonista (nel suo espletarsi tra un piagnisteo e un altro) che Doraemon diviene per larghi tratti stucchevole, prolisso, estremamente sentimentale, pedagogico, ma di un’educazione buonista e attempata.
Ciò che ne esce fuori è un film che sembra aver acquisito per osmosi i caratteri del suo protagonista. Un film che, se ci si ferma alla sola superficie, si lascia seguire (per buona parte) in maniera piacevole, ma debole perché la sua consistenza è vacillante. Un film indolente, pigro, per larghi tratti patetico e sentimentale. Un film che necessiterebbe, come Nobita, di un “aiuto” per uscire dalla sua impasse narrativa. Preferibilmente dal futuro, per svecchiarsi un po’.