Dossier Joe Dante / 8 - Salto nel buio
Avvicinamenti e distanze dal cinema spielberghiano
La direttrice spielberghiana è facilmente identificabile ed è quella che pone Salto nel buio in continuità con Ritorno al futuro: tanto il film di Zemeckis era sul tempo, quanto questo lo è sullo spazio. In entrambi i casi si tratta di identificare una “nuova frontiera” da rifondare, partendo dall’uomo, nelle sue articolazioni/interazioni più immediate (la famiglia, il corpo umano, gli affetti). Di qui il gioco d’identità che si sovrappongono, si scambiano, si riscrivono nel fluire degli eventi. E qui entra in gioco anche Joe Dante, che al nuovo progetto può dare quella caratura cinefila e personalissima in grado di portare l’esplorazione a un nuovo livello. Perché, se è vero che Salto nel buio è un film di avvicinamenti progressivi fra realtà altrimenti distanti, il tutto assume un sapore nuovo nel confronto con la progettualità spielberghiana, che per una volta Dante non affronta in prospettiva critica o irriverente - come accadeva in Piranha e per certi versi anche in Explorers – ma ossequiandone il disegno generale, pur nei distinguo derivati da una cifra sempre assolutamente personale.
Ecco quindi che Salto nel buio si offre in quanto rivisitazione del classico Viaggio allucinante di Richard Fleischer, cui possiamo unire una sorta di divertita presa in giro (quella sì) degli spy movies alla James Bond, con particolare riferimento all’epoca più anarchica e ludica di Roger Moore: il confronto finale fra l’esploratore Tuck Pendleton e il cattivissimo Igoe di Vernon Welles fra le vene e i muscoli del malcapitato Jack Putter, ha infatti il sapore delle spettacolari battaglie fra Bond e lo Squalo di Richard Kiel. Il melting pot di influenze è tale che l’intera vicenda appare come un mix tra la sgangheratezza degli sci-fi anni Cinquanta e la sofisticazione spettacolare dei meccanismi di intrattenimento del fantasy anni Ottanta (il film, infatti, portò a casa anche un premio Oscar per gli effetti speciali). Avvicinamenti tra realtà distanti, proprio, che fanno di Dante il regista perfetto. Ma non si creda che tutto si esaurisca nel gioco!
Dante, infatti, approfitta del divertimento veicolato dall’avventura per aprire ancora una volta una finestra sugli spietati meccanismi tipici della nuova società a trazione capitalista, interessata a un piacere esteriore (si veda anche il personaggio della lussuriosa dottoressa Canker di Fiona Lewis) che si contrappone all’amore travagliato e appassionante tra Tuck e la giornalista Lidia Maxwell (una Meg Ryan capace di risultare dolce ma anche molto decisa). Dunque avvicinamenti, ma anche precise prese di posizione che marcano un confine molto netto fra una sostanza etica e un’apparenza gioiosa in cui la mescolanza di elementi eterogenei può trovare campo libero.
Il bello di Salto nel buio è proprio qui, nel continuo ampliamento e restringimento del fronte tematico che una narrazione apparentemente molto più controllata del solito porta avanti: il regista sembra tenersi volutamente a freno dopo le tensioni anarchiche sbandierate in passato, forse in risposta all’eccesso di improvvisazioni che aveva caratterizzato la lavorazione di Explorers. Il suo sguardo resta però lucidissimo e riesce in tal modo a barcamenarsi fra l’infinita grandezza dei legami sentimentali e personali che uniscono/dividono i personaggi, e la piccolezza estrema della capsula miniaturizzata di Tuck, che riscrive letteralmente le grandezze del mondo, permettendo al protagonista di compiere il suo viaggio di rinascita attraverso il “centro dell’universo” (come lo chiamava Fleischer nel modello del 1966) rappresentato del corpo umano.
Il gioco di distanze e avvicinamenti si consuma letteralmente sul corpo, anche grazie a un acuto gioco di casting, che affianca l’iperattività slapstick di Martin Short, alla caratura più tradizionale di un Dennis Quaid costretto nell’immobilità della sua navetta. E’ come se Tuck delegasse la fisicità espressa dal suo nudo integrale nella scena iniziale dell’abbandono di Lidia, al nervosismo dell’organismo di Jack, letteralmente per riscrivere la propria presenza al mondo. Non a caso, il suo percorso di formazione non è soltanto morale ma anche scritto sulle tappe scandite dalla biologia del corpo umano con cui la navetta deve interfacciarsi, mentre il montaggio parallelo mostra le buffe conseguenze interne sulla vita esterna di Jack. In mezzo c’è persino un letterale cambiar di connotati, che spinge Jack a sostituirsi all’esilarante personaggio del Cowboy (un magnifico Robert Picardo, autentica scheggia folle dantiana nel corpo della narrazione tradizionale portata avanti dalla storia).
Il tutto fino alla cognizione del feto che si va formando nel corpo di Lidia, che sembra fissare esattamente le coordinate del discorso più squisitamente spielberghiano: tutte le funzioni esplorate fino a quel momento non si riducono a mera disamina scientifica, ma partecipano del mistero della vita che è tale in quanto generata dal sentimento di due realtà altrimenti diverse e separate. Per questo l’avventura di Tuck non è solo quella di tornare alla realtà esterna, ma anche quella di recuperare il rapporto con la donna che ama. E Jack, dal canto suo, impara pure a trovare il proprio posto nel mondo.
La continua interposizione di elementi terzi e l’interazione con gli stessi finisce dunque per tracciare la mappa delle connessioni fra gli individui, a scapito della sovrastruttura di interessi che muove i “cattivi” di turno. Non per niente il film manca di un finale che chiuda davvero la vicenda, e si accomiata dallo spettatore quando i percorsi dei protagonisti sono compiuti, lasciando la risoluzione dello scontro fra le fazioni alla libertà dell’immaginazione. E questo, certamente, è il gesto più anarchico di Dante, il colpo di coda con cui il regista stampa il proprio inconfondibile marchio sull’intero progetto.