Dossier Lisandro Alonso / 6 - Jauja
Sotto il segno della molteplicità, un viaggio ambiguo verso la natura primigenia del cinema.
“I have a feeling we’ve been together before.”
Jauja – Lisandro Alonso
Parte della complessità testuale che rende Jauja il crocevia della filmografia di Lisandro Alonso – costituendosi al suo interno come una sorta di punto di non ritorno forse incontrovertibile – deriva dalla deviazione drammaturgica che caratterizza il quarto d’ora finale del precedente Liverpool. Lì, scegliendo di non seguire l’odissea di ritorno del marinaio Farrell e, per converso, di perlustrare i casuali frammenti della ripetitiva quotidianità della sua famiglia, sperduta nei più estremi meandri della terra del fuoco, Alonso traslava in modo definitivo il nomadismo errante e confuso dei suoi personaggi nel cuore stesso del suo cinema, della sua modalità rappresentativa. La stessa istanza narrante, la macchina da presa, diventava girovaga, segnalando un preventivo distacco dai suggestivi ritratti antropologici su cui si fondavano i primi, magnifici La Libertad e Los Muertos.
Questo nomadismo rappresentativo giunge a un apice di abbagliante purezza in Jauja – folgorazione del Festival di Cannes 2014, giunto in Italia all’interno della cornice del Torino Film Festival – che fa della molteplicità drammaturgica il proprio carattere strutturante, capace di pervadere forma e contenuto, narrazione e strutture di genere.
Jauja si apre su un cartello che illustra, a parole, il senso del titolo, individuando appunto in “Jauja” una terra mitologica di abbondanza, un’utopia in termini in cui è destinato a smarrirsi chiunque vi tenda. Seguono le figure intere di Gunnar – un capitano danese – e di sua figlia Ingeborg, seduti su una roccia nel cuore di un rigoglioso deserto di pozze d’acqua scintillanti e leoni marini nella Patagonia di fine ’800, animato da un accampamento di soldati agli ordini del danese, tesi alla conquista di territori indigeni. Si vocifera inoltre di un certo Zuluaga, ex-colonnello argentino divenuto un folle sanguinario avvezzo a vestirsi da donna.
Quando, a mezz’ora dell’inizio, Ingeborg scappa con un soldato, coronando il suo sogno d’amore, e Gunnar si mette sulle loro tracce, lasciando l’accampamento e penetrando lentamente le terre di un mondo dimenticato dal mondo, il film cambia drasticamente i suoi connotati e sembra ripartire da zero. Alonso illustra allora in modo asimmetrico il percorso parallelo di padre e figlia, approdando con Gunnar sulla soglia di uno spazio ambiguo, sospeso tra veglia e sogno, realtà e allucinazione e giungendo con Ingeborg in un presente impossibile, segno di un tempo liquido, capace di avvolgersi e ritornare.
Il fattore che più immediatamente emerge dalla fruizione di Jauja è il senso di un’incontenibile libertà (si pensi al titolo del primo lungometraggio di Alonso) costruttiva, la viva potenza di un approccio alla materia cinematografica scevro da canoni o sovrastrutture. Qui più che mai, Alonso dà forma nuova ai criteri classici di causalità, finalità, spazialità e temporalità, sovvertendoli e rimettendoli continuamente in discussione. Lavorando sul principio strutturante della molteplicità, il cineasta argentino tenta di restituire la possibilità di un’immagine in perenne e inarrestabile trasformazione, di tornare alle origini del principio fotografico del cinema, offrendo l’utopia di una visione nuovamente primigenia e naïf. Non è un caso, in fondo, che la bellezza esasperante delle immagini di Timo Salminen (noto per la sua lunga collaborazione con Aki Kaurismäki) sia racchiusa in un 4:3 che non può che rinviare con la mente a uno steroscopio, alla logica dell’apparire e dello svanire e all’inarrestabile successione di orizzonti ad esso connaturate.
Jauja è in questo senso una sorta di paradosso estetico che tenta di riportare il cinema e, in generale la narratività, a un grado zero, a una struttura discorsiva primitiva che il cineasta desume da modelli come Apichatpong Weerasethakul, Andrej Tarkovskij, Robert Bresson e Tsai Ming-Liang (si dia un’occhiata, a tal proposito, alla lista dei film preferiti del regista argentino pubblicata sul sito ufficiale del British Film Institute: ).
E inoltre, ponendosi – tra le altre cose – come la storia di un padre alla ricerca della figlia nel mezzo di una terra dell’oro ostile e pronta ad essere colonizzata, Jauja sembra vagamente replicare, differenziandole e adattandole al sopraggiungere delle coeve dinamiche storiche, le strutture del fordiano Sentieri Selvaggi e in generale del western di cui il film è indiscussa immagine iconica. Il percorso lineare, classico, dotato di precisi criteri di separazione sociale e culturale di Sentieri Selvaggi, si trasforma qui in un groviglio indistricabile di apparenze, in una successione inesplicabile di forme dell’esistere, di spazi, di tempi. La frontiera di John Ford, intesa come divisione e separazione, viene ridefinita da Alonso e si trasforma in luogo ambiguo di convergenza e attraversamento, in soglia labile dominata dalla progressiva dispersione del limite più che dal valore escludente del limite stesso.
Jauja si configura, in questo senso, come un film che non pretende di offrire interpretazioni solide e si propone, al contrario, alla stregua di un affascinante esperimento che testa la possibilità stessa della molteplicità drammaturgica come modo di essere di un’opera. Un film che si disperde, annullando le coordinate narrative di riferimento, che confonde, rigettando il principio stesso della razionalità. Jauja concide con quella terra incantata e misteriosa che, in fin dei conti, non è altro che il cinema.