Due giorni, una notte

L'ultimo film dei fratelli Dardenne è potente e sincero, ma avrebbe giovato di una maggiore sobrietà di scrittura

Il lavoro è il grande vuoto del cinema occidentale contemporaneo. Più di un nodo fondamentale dell’esistenza, il lavoro è una dimensione ulteriore che definisce l’essere umano. Non capita spesso di trovare del cinema che lo affronti con onestà e sensibilità e anche quando il lavoro è presente e importante, raramente capita di uscire dai territori della classe media e dalle narrazioni tangenziali: lavoro come coté e ambientazione, nota di costume e poco più. Dopo gli anni Settanta, abbiamo assistito ad un’eclissi del lavoro – o, se vogliamo, a una pericolosa disattenzione.

Il fenomeno non stupisce: dopotutto, gran parte dei registi (per non parlare dei gusti del pubblico, o dell’estrazione socioculturale degli spettatori di certo tipo di cinema colto e impegnato) conosce molto meglio lo spettro medio-alto del reddito e delle professioni. Per fortuna, al di fuori del cinema commerciale capita di trovare delle piacevoli eccezioni: Due giorni, una notte è cinema di indagine e di scoperta, una fenomenologia del lavoratore precario e una microfisica del potere aziendale.

Due giorni, una notte ci racconta di Sandra (Marion Cotillard), dipendente di una piccola azienda di pannelli solari. Sandra ha sofferto di depressione e il capo ha deciso di sostituirla proponendo straordinari agli altri dipendenti. Quando la giovane donna è pronta per tornare, il capo propone ai suoi colleghi un aut aut: o il bonus di mille euro o il ritorno di Sandra al lavoro. La prima votazione è decisamente a favore del bonus, ma Sandra riesce ad ottenere di ripetere la votazione in sua presenza, due giorni dopo. Quello che segue è un disperato, frustrato e doloroso tentativo di convincere i colleghi a “mettersi nei suoi panni” e a salvare il suo posto di lavoro. Persone diverse che reagiscono con pietà o aggressività, solidarietà o vergogna; sono uomini, segnati dalle difficoltà e dai progetti frustrati da una crisi economica e culturale che li ha portati tra le fauci del leviatano.

I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne non sono nuovi al racconto del lavoro. Diversi dei loro film, a partire dal celebrato Rosetta, hanno raccontato i temi dell’occupazione, dei diritti e dell’insicurezza di chi si trova alla base della piramide occupazione. Due giorni, una notte è l’aggiornamento necessario dello sguardo dei Dardenne su una traiettoria già definita negli anni Duemila e ormai tragicamente consolidata: il crollo della classe operaia e la nascita di un post-proletariato senza diritti e alla mercé del capitale liquido globale. Il mantra di questi nuovi paria è il bellum omnium contra omnes di hobbesiana memoria; la loro condizione è la paura, la solitudine senza solidarietà. Dividi e impera.

I fratelli Dardenne sono abili, come sempre, a “pedinare” i propri personaggi e a farne emergere la ricca, contradditoria natura. Sandra è fragile e disperata, eppure capace di straordinaria forza e infinita dignità. La logica del capitale le impone un ruolo quasi impossibile, quello di convincere gli altri all’altruismo e al sacrificio. Come in un videogioco, come in un’elezione: raccogliere punti e superare ostacoli, il tutto amministrando la risorsa limitata del caso e del cinema, il tempo. Il cinema è il linguaggio ideale per rappresentare il conflitto e la fretta disperata. Nessun altro medium è capace di raccontare il tempo attraverso il tempo. Sandra corre come correva Lola, ma qui non abbiamo a che fare con il gioco borgesiano/calviniano della narrazione combinatoria e paradigmatica. Il fatto che la sopravvivenza e i sogni di Sandra dipendano dal gioco di un voto che nulla ha di democratico è l’ultima, amara epifania: la posta in gioco è la vita e la famiglia.

Dispiace solamente che un film potente e sincero come Due giorni, una notte sia appesantito da un’idea di sceneggiatura che risulta, a conti fatti, una distrazione e un peso: la malattia di Sandra. La depressione di cui soffre aiuta a inquadrare le ragioni del suo licenziamento, ma era davvero necessaria? Lo Xanax, le crisi emotive, la continua enfasi sulla malattia sottolineano e puntano il dito sulla fragilità di Sandra, ma il personaggio interpretato dalla Cotillard aveva già motivi sufficienti per avere paura e gettare la spugna. Nè la depressione era necessaria per rendere credibile o traumatico un licenziamento illegittimo. L’effetto è dunque quello dell’eccesso melodrammatico, dell’attenzione deviata dal centro del dramma e del conflitto verso la patologia e la malattia.

Al di là di questa scelta opinabile, Due giorni, una notte è un esempio di grande cinema. Cinema che si fa le domande giuste e prova a dare risposte, preoccupandosi dell’etica senza dimenticare l’estetica. Sandra è un’eroina contemporanea del tipo che vorremmo vedere più spesso sul grande schermo: un po’ Irene (quella di Europa ’51), un po’ Giovanna d’Arco calata nel proletariato, si carica sulle spalle le difficoltà di vivere la nostra epoca. Allo spettatore il compito di compatire (cum-patere: soffrire insieme) e reagire.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 12/11/2014

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