Allied - Un'ombra nascosta
Zemeckis firma uno straordinario mélo fuori dal tempo, un capolavoro sulla narrazione come arte del mentire autenticamente.
Un uomo precipita dal cielo.
Il paracadute si apre adagio, il deserto è imminente ma, per un attimo, abbiamo la sensazione che il comandante Vatan non atterrerà mai.
E’ lì, sospeso nel nulla, in attesa di qualcosa che arriva sempre in ritardo. Una storia, una traiettoria, un’identità.
Siamo al grado zero del racconto, persi nell’orizzonte indefinito del deserto.
Il cielo tocca finalmente la terra.
Tutto potrebbe ancora avvenire. Perfino quell’automobile che si avvicina con lentezza compare alla stregua di un miraggio. Il deserto, madre di tutte le immagini, di tutte le possibilità narrative, eterno ricettacolo di storie a venire: è qui che il caduto si fa divo anni ’40, immagine-corpo di Brad Pitt.
Fin dall’incipit, Allied fa precipitare lo spettatore all’interno del racconto, chiedendo al pubblico di cadere tra le sue braccia, di abbandonare il peso del corpo – come in The Walk - per piombare, tutto a un tratto, di nuovo a Casablanca. Ci chiede, il regista di Chi ha incastrato Roger Rabbit, di trovare spazio nelle inquadrature piane di un mélo reincarnato. Robert Zemeckis, sempre all’inseguimento della pietra verde, ricerca la verità di un’emozione nella patina del digitale, schiaccia la profondità di campo nel 2D del sentimento, guidandoci in labirinti di specchi dove c’è Humphrey Bogart e Lawrence d’Arabia, Ingrid Bergman e l’ombra nascosta di Alfred Hitchcock. Ma questi cimeli, miracolosamente, ritrovano la loro aura perduta, fissandosi nel miracolo salvifico di un’anomalia tutta umana: il sentimento (“Io non mento mai sulle emozioni. E’ per questo che funziona” rivela il personaggio della Cotillard). E se l’alba pare incollata in color correction e il mondo tutto intorno sembra un set virtuale, il cuore continua a battere senza alcun ordigno, senza alcun congegno che ne regoli il meccanismo. Autonomamente, autenticamente, fieramente.
Certo, se ci guardiamo intorno, inquadratura dopo inquadratura, tutto è finto, tutto emana un’indelebile senso di posticcio. Le luci, i colori, la verità nascoste di Marion Cotillard, le traiettorie di una spy story che conosciamo già perfettamente. Eppure, come già avveniva nei suoi fondamentali film in motion capture, Zemeckis rifonda un intero immaginario cinematografico tra i simulacri del digitale, intelaia progressivamente un racconto che si beffa di qualsiasi verosimiglianza per proclamare, una volta per tutte, la sua fede cieca, sconfinata, verso l’arte della narrazione.
E’ così che il volto cibernetico di Brad Pitt, eterno come solo Tom Cruise, si scopre fatto di gomma. Ma la gomma perde sangue e scopre un cuore. Tutta questa rielaborazione, tutto questo gioco sinuoso sulle superfici, tutto questo erotismo simulacrale, dà vita a un’incredibile palingenesi. Ogni corpo si fa fantasma del cinema, suo custode segreto e gentile, suo zampillo vitale. Le due spie danno voce al senso di quello che oggi è il cinema per Zemeckis: costrette a mentire, come le sue immagini. Le guardiamo negli occhi e non sappiamo mai cosa stiano ordendo. Le sentiamo parlare e non sappiamo mai se quello che dicono sia vero o falso. Ma - è questo il punto- non ha più nessuna importanza. Nel tempo che passa – alla maniera di un Forrest Gump del tempo che fu - le spie si sposano, hanno una bellissima figlia, vivono in una casa confortevole. Finché il marito non sospetta della vera identità della moglie.
Ma nell’intricato meccanismo di sotterfugi, di doppie identità, di performances micidiali, ci sono ancora un uomo e una donna. Non degli avatar (come in Gone Girl del ben più cinico Fincher), non dei meccanismi, ma delle persone. Il sospetto s’insinua negli occhi di Brad Pitt e, mentre il cielo di Londra si accende in un turbinio di fuochi, la guerra non gli appartiene più. E’ solo interessato a conoscere sua moglie, a dimostrare a se stesso che la donna che ama sia autentica, che il loro amore sia reale. Lontano dalle trame della spy-story convenzionale, l’unica verità che gli interessa è quella del sentimento.
E qui sta il miracolo: Zemeckis riscopre l’autentico nella menzogna, l’alleato nel nemico, l’amore nel tradimento. Oltre le parti, oltre le guerre, oltre la computer graphica. Così come in Sully di Clint Eastwood ciò che salvava il mondo era il fattore umano, in Allied la crisi dell’immagine è ricompattata dall’autenticità del sentimento.
Si può tradire e amare per sempre. Si può mentire e rimanere veri.
L’amore quale sentimento totale che precede perfino l’identità, la patria, la Storia. E’ così che Robert Zemeckis imbastisce il suo straordinario apologo sull’arte della narrazione come arte del mentire autenticamente. Forse assieme solo a Steven Spielberg e Clint Eastwood, Robert Zemeckis rimane oggi l’ultimo cineasta americano profondamente umanista, in grado di regalarci un cinema non classico, non anacronistico, non imbalsamato, ma fuori dal tempo, eterno come un giro di danza che ritorna sempre alla mente. O come una notte passata in terrazza, a giocare a fare le spie mentre si sogna solo un bacio, o a fare l’amore in macchina, mentre fuori si scatena una tempesta di sabbia. Movimenti concentrici e giochi di corpi, quasi ad alimentare la sfrenata tensione erotica di un desiderio che si rigenera continuamente. Ogni inquadratura sogna l’inquadratura successiva, ogni sguardo brama il corpo dell’immagine, o meglio, richiede un corpo all’immagine. Esige il suo cuore, verità nascosta tra le bugie del postumano. Finché, finalmente, Marion Cotillard non si volatilizza alla maniera di un fantasma: uno spettro, come tutte le icone che hanno incendiato lo schermo. Una traccia, un’ombra nascosta, pura emanazione di un sentimento che non si dà pace, ma torna sempre a brillare di luce. Una rêverie antica quanto il cinema. E di fronte a una tale fiducia nei confronti di questi fantasmi, siamo sicuri che, con gli anni, ad Allied sarà riconosciuta tutta la sua fondamentale importanza.
E la sua infinita bellezza.