Questa settimana Point Blank si ritrova, instancabile come sempre, a recensire l’ennesimo film girato sul nostrano indagatore dell’incubo, Dylan Dog, un personaggio che per la gioia di noi italiani è stato negli ultimi anni fonte di ispirazione per molti registi in erba, che con la loro voglia di fare hanno deciso di portare finalmente il loro eroe di carta e china sullo schermo. Dylan Dog: Il trillo del diavolo; questo il nome del sequel, o se vogliamo reboot, scritto e diretto da Roberto D’Antona, già regista del precedente Dylan Dog: L’inizio.
A questo punto, come facemmo a suo tempo per il suddetto lungo, vale la pena spendere due parole per sottolineare come, in questa sede, si stia discutendo di un fan-movie; ovverosia di quella particolare tipologia di film slegata dalle leggi di mercato e di produzione cinematografica, e girata perlopiù no-budget, grazie alla collaborazione di appassionati, fan appunto, che lavorano insieme nel tentativo di divertirsi e creare un buon prodotto. Tuttavia Point Blank ha già precedentemente approfondito sia le cause, sia i risultati, che hanno spinto giovani ragazzi, più o meno esperti ma comunque non professionisti, a girare e quindi imbracarsi in quell’ardua avventura chiamata lungometraggio. E l’ha fatto con due precedenti fan-movie realizzati proprio sull’indagatore dell’incubo: il già citato Dylan Dog: L’inizio e Dylan Dog: La morte puttana di Denis Frison. Ma oltre a questi di più, e soprattutto, con Metal Gear Solid Philantrophy di Giacomo Talamini; esempio (italiano) insuperato di fan-movie, la cui qualità artistica raggiunge la dignità di un vero e proprio prodotto cinematografico.
Perciò, piuttosto che dilungarci sulle già trattate motivazioni che hanno spinto questi fan italiani a farsi registi, andiamo subito a indagare il film, senza perdere di vista la categoria che rappresenta. In questo senso Dylan Dog: Il trillo del diavolo ci viene in aiuto e ci semplifica fin da subito il compito, poiché già dalla sequenza iniziale siamo in grado di porre uno sguardo localizzato su quelli che, evidentemente, si presentano rispettivamente come il grande punto di forza e il vistoso punto debole dell’opera. Ci riferiamo in questo caso al girato e alla sceneggiatura. Analizziamo per primo il punto debole; la sceneggiatura. Nel lungo in questione è infatti arbitrariamente riscontrabile come la falla dell’opera tutta sia senza dubbio la fase di scrittura, che è sede di parecchie cadute e scivoloni; il soggetto del film, sebbene non troppo originale, era fondamentalmente buono, ma è il modo in cui è stato sviluppato a non convincere. L’intreccio della trama più che semplice è banale, e i dialoghi suonano troppo scontati, già sentiti. Già in Dylan Dog: L’inizio, ci si rendeva conto di come D’Antona fosse piuttosto avvezzo all’utilizzo dei più sperimentati cliché cinematografici. Tutti abbiamo visto al cinema, almeno una volta in un film di genere, lo slow motion di una corsa disperata, l’urlo di vendetta per l’amico caduto, il pianto di fronte ai genitori morti, la canna di pistola nella bocca del nemico, il risveglio in prima persona dall’incubo. Ebbene in questo lungo D’Antona non se ne fa mancare nemmeno uno, e la cosa, anche se volutamente cercata in rimando ai film di genere, è sintomo di una debolezza in fase di scrittura, e finisce per fiaccare l’opera tutta. Uno dei tanti esempi di carenza creativa nel film può essere la sequenza del “lancio della pistola”, ovvero il fatidico momento in cui un Dylan in fin di vita riceve da Groucho il lucente revolver volteggiante che gli salverà la vita. Questo espediente viene usato per ben due volte in soli 51 minuti. La sceneggiatura è quindi carente, e si sente particolarmente dato che un fan-movie presenta già di per sé dei limiti ontologici, che una struttura precaria e approssimativa non fa che evidenziare ancora di più.
Assodato questo passiamo ora invece al punto forte del film, che è in questo caso il girato. In precedenza avevamo accennato alla sequenza iniziale, e se è vero che la struttura di quella scena, dei suoi dialoghi e dello svolgersi degli eventi appaiono visti e rivisti, è altrettanto vero che D’Antona la porta sullo schermo con una qualità fino ad ora raramente vista in un film indipendente; con una fotografia sovraesposta ad hoc e l’utilizzo, addirittura, di due piccoli giovani “attori”. Senza dubbio uno sforzo più che apprezzabile da parte del regista, al quale va inoltre dato il merito di aver saputo coinvolgere un collettivo non professionale per realizzare un progetto. Tuttavia la forza nelle immagini di D’Antona non si esaurisce nella sola sequenza iniziale anzi, egli infatti dimostra di essere proteso, in accordo con l’entità del film, verso uno stile di regia fumettistico che privilegia quindi i primissimi piani e i dettagli, accompagnati dal largo uso del montaggio. Da queste inquadrature si capisce al volo che, rispetto al precedente film, la qualità del girato è senza dubbio migliorata, così come quella del montaggio, del suono e non ultimo della fotografia, che ha compiuto in questo senso dei veri passi da gigante. Basta rivedere pochi minuti del precedente Dylan Dog per comprendere che ci troviamo ora davanti a un D’Antona più maturo, che ha acquisito una maggiore padronanza e conoscenza del mezzo, e che è in grado di regalare, adesso, scene di buona fattura e composizione; forse prima fra tutte la panoramica e carrello che prima segue e poi abbandona Dylan, per seguirne lo sguardo proteso a cercare Groucho. Dispiace quindi che questi sforzi registici debbano essere messi in ombra da una sceneggiatura poco brillante e, come già detto, troppo stereotipata e approssimativa.
Da svenimento in questo senso il dialogo tra Spring e Dylan, nel quale la ragazza domanda candidamente al detective se egli conosca tale Dante Alighieri, ricevendo questa risposta: “Conosco il suo romanzo di maggior successo, la Divina Commedia”. Detto ciò, dopo questo scivolone in fin dei conti relativamente importante, viene allora da chiedersi se forse il regista non dovrebbe avvalersi del sostegno di validi scrittori, per potersi concentrare così maggiormente sulla regia e raggiungere, forse a ragione, un livello qualitativo ulteriore.