El Bar
La briosa e catastrofica apocalisse sociale di De La Iglesia si consuma nello spazio chiuso di un bar di Madrid
Il cinema verboso ed allegorico di Alex de la Iglesia, e le sue comunidad di stampo ballardiano, trovano nel bar il luogo ideale dove far esplodere l’inferno sociale; l’apocalisse del ceto medio/basso si tempra nel fuoco della paura, nel terrore dell’infetto, del diverso, del disadattato. Una discesa verticale negli inferi, a tutti gli effetti, dal pavimento di un bar angolare di una secondaria e trafficata strada di Madrid al magazzino sotterraneo, fino ad arrivare nella putredine del sistema fognario della capitale spagnola. Mentre fuori dei colpi di fucile impediscono di uscire indenni dal bar, al suo interno si disputa una partita tra la vita e la morte, tra l’integrità ed il sospetto, tra l’apparenza e la sopravvivenza, ed a combatterla sono delle tipologie sociali, persone comuni, benché stigmatizzate, di cui la massa di una grande metropoli ne nasconde, e ne estremizza, le esistenze. Deciso a portare avanti una tradizione ispanica per l’assurdo e per quella parte sudamericana legata al realismo magico, l’assurdità di matrice pragmatica e spietata di De La Iglesia, corrosiva quanto un entomologo pignolo e sadico, quando si orienta verso gli spazi ristretti, condensandosi in un unico spazio scenico, non riesce a risparmiare la maggior parte della sua carne attoriale. Tralasciando le furiose scorribande in spazi scenici variabili come in Balada triste de trompeta o Las brujas de Zugarramurdi, con El Bar il regista spagnolo torna a sezionare i modelli sociali in luoghi circoscritti, dal condominio de La comunidad al centro commerciale de Crimen Ferpecto fino alla geniale trovata dell’incidentato de La chispa de la vida, l’unità di spazio e di tempo concede al regista iberico la pelle migliore per la sua affilata arma da taglio. Lo spazio chiuso depone i limiti territoriali entro i quali ingrandire, estremizzare, e classificare i modelli d’appartenenza, personaggi come target di un sistema (in)civile di terrore, manichini di una contemporaneità dove la cronaca si fa falsa narrazione, dove la mitografia dell’attentato si contamina con lo storytelling costruito come un evento esclusivo, una falsa all news, un’infezione virale prodotta dall’interno societario, un attacco terroristico in potenza ricostruito a tavolino per proteggere dal contagio qualunquista, dalla viralità di una piaga che se uscisse dalle porte del bar di fiducia infetterebbe il mondo intero. Film che ripropone i gusti e le scelte, elementi già riconoscibili del proprio marchingegno scenico, dalle tonalità orrorifiche, di natura e tradizione cattolica, già presenti in El dia de la bestia (e qui identificati nel personaggio del barbone e nelle citazioni, in particolar modo, dell’Apocalisse di Giovanni) al costante interesse nei confronti della primordiale brutalità umana; fino alla maschera sociale (pirandelliana) che necessita una dolorosa, e sanguinosa, fuga dall’individuo dietro al quale si nasconde la persona. Queste forme sociali fisse, presenti nella sua filmografia, sono parti per una (dis)umanità sempre pronta a scontrarsi una con l’altra, pronta a lanciarsi accuse e denuncie, a smascherarsi denudando la propria essenza dal proprio ruolo. Nonostante il cinema di De la Iglesia può apparire estremamente confezionato, occlusivo ad uno sguardo libero, condizionato quindi dal valore e dal significato allegorico che il regista vuole affermare, lo spazio scenico frontale, teatrale, riesce a valorizzarne gli aspetti positivi più significativi. Un regista in grado di lasciar implodere un atomo di stilizzazioni sociali innescandolo con una necessaria dose di humor nero e sangue stillato dal cinema di genere, che sia esso fantascientifico, orrorifico, giallistico, tragico o lirico. Per De la Iglesia l’apocalisse della civiltà umana avviene nel quotidiano, in quel luogo abituale che reputiamo sicuro, nel momento in cui meno ce lo aspettiamo, anche quando, ignari, passiamo del tempo nel nostro bar di quartiere; ma non si esaurisce qui l’allegoria perchè il vero terrore, piuttosto che terrorismo esterno e mediaticamente rappresentato, avviene quando il giudizio subentra nella considerazione dello sconosciuto, quando per sopravvivenza la maschera necessariamente cade e (ci) mostra il vero volto che solo noi, di noi stessi, riconosciamo. Un cinema che si pone il compito di far cambiare prospettiva sull’interazione civile, che può risultare immobilizzato nei sui caratteri e caratteristiche stilistiche come costretto dentro al proprio riconoscibilissimo marchio di fabbrica, ma che si può permette di stringere i propri personaggi nelle strette vesti dell’escluso, dell’outsider, in quella donna disadattata, eroina finale più umana e più altruista degli altri, che nella folla finale si disperde come una sopravvissuta al delirio di una massa che non sa più riconoscerla.