Durante la visione di molte delle plumbee scene di Ballata dell’odio e dell’amore torna in mente, saltato fuori da uno strambo ma forse utile cortocircuito di idee, l’intervento con cui Luttazzi si presentò ormai più di un anno fa al Raiperunanotte di Michele Santoro. Per festeggiare il suo meritato ritorno sulle scene il comico romagnolo si prodigò in un lungo elenco riguardante tutte le compromettenti implicazioni morali, etiche, politiche e legali di Berlusconi, chiedendosi infine come fosse possibile che tale personaggio godesse ancora dell’appoggio di buona parte degli italiani. Per scogliere il mistero Luttazzi, nel pieno del suo stile, decise di ricorrere all’efficace metafora delle tre fasi del sesso anale. In tale processo infatti si parte da un primo momento di titubanza, paura e pressione; si passa per un inizio doloroso, sin’anche violento del rapporto, in cui chi subisce può anche esser tentato di ribellarsi all’atto, per poi giungere infine ad una traslazione che vede tale sofferenza divenire piacere in una pura ed entusiastica accettazione. Ecco, era qui, in questa fase in cui dal ribellarsi si era passati al chiedere di “farsi sbavare sulla schiena”, che era l’Italia, assoggettata con gioia ad un’appropriazione indebita. Risate a non finire certo, sguardi divertiti degli ospiti che si facevano mezzi imbarazzati al puntarsi delle telecamere, ma al di fuori del tipico linguaggio satirico cui Luttazzi ci ha abituati rimaneva un’acuta rappresentazione di ciò che sembrava avvolgere il nostro paese, un processo che, a quanto ci mostra De la Iglesia, non siamo i soli a subire. L’egemonia e la violenza – fisica ma anche psicologica – crescono negli oggetti che le subiscono, finanche a moltiplicarsi e rivivere dentro di essi.
Ballata dell’odio e dell’amore inizia in medias res, e alla grande. Siamo nella Spagna sconvolta dalla guerra civile e lo spettacolo di due clown in un buio circo raffazzonato viene interrotto da un commando di soldati repubblicani, lì per reclutare volontari in vista di un assalto contro i ribelli. La battaglia prenderà piede poco dopo – regalandoci la prima di molte potentissime scene, un pagliaccio furioso armato di machete gettato nella mischia del conflitto – ma non avrà l’esito sperato; saranno in molti a morire, mentre il pagliaccio viene catturato per divenire uno degli eterni prigionieri del regime. L’uomo però ha un figlio, al quale consiglia, a guerra conclusa, di dedicarsi alla vendetta poiché tale pratica sarà l’unica con la quale lo sventurato bambino rimasto solo potrà sperare di riconquistare quella felicità e serenità d’animo che la guerra civile gli ha strappato via. Il giovane decide quindi di perpetrare tale proposito e di liberare il padre al contempo, ma nell’attentato che organizza per farlo il genitore rimane ucciso. Rimasto definitivamente solo, Javier si dedicherà al mestiere di famiglia, il circo, diventando un pagliaccio triste. Javier cresce quindi nella Spagna franchista, e da adulto entra in un circo in cui incontra Sergio, un pagliaccio tanto talentuoso quante instabile. L’uomo, prepotentemente violento, tiene in scacco l’intero circo, costretto ad accettare lui e i suoi eccessi sociopatici per motivi economici. Tra di loro Javier noterà in fretta la splendida e provocante Natalia, donna di Sergio e personaggio che più di tutti gli rimane al fianco pur continuando a subirne le violenze, una femme fatale che inizierà ad oscillare tra i due pagliacci. Javier è infatti la liberazione, la possibilità di redenzione, mentre Sergio è quella violenza di cui si è parlato all’inizio, l’abuso che impariamo a subire fin’anche a desiderare. Scissa tra la paura e il desiderio di cambiamento, e la capacità acquisita a godere della violenza subita, la bella e masochista Natalia diviene metafora di un intero paese, non soggetto passivo ma vero e proprio amante del potere che violentemente lo domina.
Ballata dell’odio e dell’amore è innanzitutto un lavoro estremamente duro e pessimista, che non lascia scampo alla generazione che si propone di raccontare. Il messaggio di De la Iglesia è infatti chiaro: per chi è cresciuto mutilato dalle violenze del regime non c’è speranza di liberazione dai fantasmi del passato; solo la vendetta potrà allietare quel peso di morte, sempre che di tale violenza egemonica non si sia invece nel tempo divenuti dipendenti. Quello che racconta il regista spagnolo è l’impossibilità di una scelta positiva in un bivio in cui ad una strada che non sa più trovare e immaginare soluzioni alternative si oppone la via del riscatto che sempre di tale brutalità è lastricata. Non c’è scampo, e il film questo lo racconta meravigliosamente, con una narrazione lontana dalla didascalia e dalla retorica per quanto limpida e puntuale. Tuttavia il problema di Ballata dell’odio e dell’amore è il fatto che esaurita la metafora, spiegata e raccontata tramite le gesta dei pagliacci, rimane un campo vuoto del quale i caratteri più parossistici della narrazione prendono il controllo. C’è un punto preciso in cui il film pare esaurirsi, ed è quel morso così liberatorio con il quale un Javier ormai ridotto al rango di bestia mutila lo stesso Franco, momento di alto cinema che nel suo potere deflagrante pare poi portarsi via tutto quanto. E così la componente melò nata nel triangolo amoroso prende il sopravvento, la violenza si fa pulp, il racconto stesso si sbrindella verso un finale solo apparentemente grandioso. Le ultime sequenze sulla croce gigantesca fatta costruire da Franco – oggi mausoleo delle migliaia di vittime del regime – scivolano infatti in una spettacolarizzazione che trasuda furbizia e volontà di farsi autore; la splendida plumbea fotografia si fa sempre più patinata, la regia da estremamente robusta – la migliore messa in campo dal regista sinora – diviene di maniera, la narrazione gira a vuoto in un eccesso che ha perso il suo aggancio con la Storia.