El Botón de nácar

El Botón de nácar arriva al Biografilm come Anteprima Italiana, con all'attivo il prestigioso orso d'argento ottenuto all'ultima berlinale.

Continua il suo discorso di dolore, Patricio Guzman, sulla storia sanguinolenta del Cile. Erede sotto molti aspetti del precedente Nostalgia de la luz (2010), ma contestualizzato di qualche chilometro più in giù dal deserto dell’Atacama: verso la Patagonia, una immensa landa vissuta per millenni da società tribali legate al culto dell’acqua e delle stelle. Il documentario si apre con delle immagini ambientali, di una natura selvaggia, accompagnate dai suoi echi primordiali, potenza visiva che ha eguali nel miglior Herzog. Guzman con pacata lentezza introduce lo stile di vita, con fare antropologico, dei popoli che gli spagnoli nel XVII secolo identificarono come abitanti dai piedi grossi (definiti patagon e, quindi, il nome affibbiato alla loro terra). Guzman racconta le gesta di un popolo che, nonostante le difficoltà di una natura maledettamente brutale, riuscì a dominare le coste marine e vivere in religiosa simbiosi con l’Oceano. Guzman sciorina con cautela e reverenza l’antropologia di un mondo, che paradossalmente ha avuto, nel suo triste destino, una coerenza religiosa.

Come in Nostalgia de la luz l’astronomia ha una sua importanza in El boton de nacar. Una semantica legata alla ricerca della particella dell’acqua sugli altri pianeti del cosmo. Il regista scrive un’elegia fatta di un trittico, dove la vita oltre la morte degli indios e la ricerca della vita nello spazio si intrecciano con la tragedia dei desaparecidos. Solo nella seconda parte dell’opera, quella più politica, si comprende il senso della prima parte del documentario, non una semplice lezione d’antropologia culturale, ma l’inizio di un viaggio filosofico, o religioso, sul destino, sull’incompatibilità della civiltà occidentale con l’essenza della cultura ancestrale della Patagonia.

El boton de nacar è un film lento, ma è lo stesso Guzman, intervistato in sala, a confermare che la lentezza filmica è anche quella della riflessione sul tema. E’ una forma di rispetto nei confronti della millenaria esistenza delle tribù che in pochi decenni hanno perduto un’identità. Una durata di 82 minuti, relativamente breve, ma un montaggio ed una voce narrante che non ha nessuna fretta. Perchè il peggio è già storia ed ora è il tempo di meditare. Guzman non si addentra in discorsi sulla politica della violenza di Pinochet. Quello che il regista pare volerci descrivere è l’inevitabilità della sottomissione indigena come progetto secolare, quel processo storico occidentalista (e poi capitalista, e poi beceramente autoritario) e che la rivoluzione di Allende, nella sua pianificazione marxista non era che un’utopia a causa delle reali pressioni esterne, USA su tutti. Ma nella storia e nella cultura degli Indios anche lo sterminio assume un carattere catartico. I corpi fatti sparire dal regime affioravano dalle acque. L’acqua, elemento fondante della vita, che gli astronomi ricercano nello spazio, setacciandolo. Nei miti e nelle credenza del popolo di Patagonia la morte è un viaggio verso le stelle, a partire dal mare. Nel film di Guzman tutto torna, con profondissima poesia e drammaticità. Potrei scrivere sul senso del titolo, del significato del “bottone”, ma sarebbe rovinare il piacere di una prima visione. Inevitabile capolavoro.

Autore: Diego De Angelis
Pubblicato il 10/06/2015

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