Feud – Bette and Joan
Dietro il dinamismo spettacolare della celebre faida tra Crawford e Davis, Ryan Murphy svela la storia di un’amicizia distrutta dal dolore.
Dopo aver setacciato pagine e pagine di libri con “signore in copertina”, nella speranza di trovare quella parte che Hollywood continua a negarle per manifesto ageismo, una Joan Crawford (Jessica Lange) ormai più che cinquantenne si lamenta con la fida domestica Mamacita (Jackie Hoffman) che «tutto ciò che è stato scritto per le donne ricade in tre categorie: ingenue, madri o gorgoni». Troppo poco per una diva che ha già vestito i panni di innumerevoli personaggi, molti dei quali indimenticabili, lungo tutte le fasi del cinema classico americano, dal muto fino alle soglie dello sgretolamento dello studio system. Lei che sognava di interpretare Marie Curie mentre Louis B. Mayer alla MGM continuava a proporle quei ruoli da cameriera o commessa che l’avevano resa famosa. Lei che per questo motivo aveva deciso di passare alla Warner, dove la sua stella aveva incrociato quella, infuocatissima, di Bette Davis, dando inizio ad una faida che tra verità e mito sarebbe entrata di diritto nella storia del cinema e nella cultura popolare.
Bette and Joan, prima stagione di Feud, l’ultima serie antologica creata dallo specialista Ryan Murphy per FX, pensata, come il titolo lascia intendere, per portare in tv famosi casi di faide tra celebrità, parte proprio dal momento in cui la storica rivalità tra Crawford e Davis (il cui carisma rivive splendidamente nei gesti e nella voce di Susan Sarandon) raggiunse il livello di visibilità più alto, ovvero durante la lavorazione del loro primo film insieme, diretto da Robert Aldrich: Che fine ha fatto Baby Jane?. Feud fa di questa contrapposizione umana e professionale il materiale di partenza – spassoso e incandescente, ma al contempo tragico e brutale – per parlare di una Hollywood affetta, allora come oggi, da sessismo, misoginia e ageismo. Un sistema che dopo le buone premesse dell’epoca del muto, caratterizzata da progetti filmici per lo più a basso costo e con un tasso di rischio risibile, con l’avvento dei grandi studios e delle produzioni ad alto budget, aveva progressivamente allontanato le donne dalla produzione e dalla regia (si pensi ad attrici-produttrici del calibro di Mary Pickford, Clara Kimball Young e Norma Talmadge, ma anche a registe-sceneggiatrici come Lois Weber e Dorothy Arzner) relegandole a compiti più marginali.
Murphy sa perfettamente che da allora non c’è stata alcuna rivoluzione palingenetica per quanto riguarda la parità di genere ad Hollywood. Non è un caso che lui stesso abbia da poco avviato una fondazione, Half, che si occupa di favorire le pari opportunità nel mondo della creatività cine-televisiva. Emblematica, in tal senso, la scelta di inserire nella narrazione il personaggio di Pauline (interpretato brillantemente dall’amatissima Martha Hanson di The Americans, Alison Wright), assistente e segretaria di Robert Aldrich (Alfred Molina), uno dei pochi a non essere desunto direttamente dalla realtà e perciò libero di assolvere alla propria funzione simbolica senza ossequi biografici. Nella sua ambizione di scrivere e dirigere le proprie opere, nel suo destreggiarsi abilmente per provare a costruirsene l’occasione, sono concentrati, idealmente, le aspirazioni e i desideri di emancipazione di tutte le donne che lavorano nello studio system e le difficoltà a cui esse vanno incontro. Il loro coraggio, le capacità, la scaltrezza, la forza d’animo. Ma anche i sacrifici, le frustrazioni, i rifiuti, il dolore.
Pauline soffre, anche se il suo pragmatismo le impedisce di abbandonarsi ad uno stato di auto-commiserazione, di contemplazione o di lotta ideale. È, come Joan e Bette, una guerriera che deve sopravvivere all’ostilità e al dolore del rifiuto. Le figure femminili di Feud sono esattamente così: sopravvissute alla ricerca costante di una nuova identità. La loro volontà di affermazione nasce dalla negazione; è fame di riscatto, rivendicazione del diritto all’autodeterminazione. Ma se per Pauline è ancora possibile intravedere la luce verde del desiderio, della speranza nel futuro, lo stesso sembra non essere ormai più possibile per Crawford e Bette. Nel loro caso la sovrapposizione tra vita e lavoro, tra ruolo e identità, tra bio-grafia e cinemato-grafia, è definitiva perché ha ormai escluso tutto il resto. Hollywood le ha scarnificate fino a non lasciar (di) loro più nulla, se non una notorietà pagata ad altissimo prezzo, peraltro labile e ondivaga (una tematica, quella del lato oscuro della popolarità, che Murphy esplora sin dai tempi di Popular).
Nell’impossibilità di recuperare ciò che è davvero importante («l’unica eredità che conta è la famiglia», dirà amaramente Bette scontando il fallimento del suo rapporto con la figlia B.D.) non restano allora che rovinose dipendenze: l’alcol, il tabacco, la recitazione stessa, capaci di provocare, come in un high psicoattivo, un’euforia costante, uno stato di grazia “stupefatta” tale da rimediare ai vuoti privati. Non c’è vita senza il cinema. Quando non lavora – dice Joan – non va neanche alle feste, perché non saprebbe di cosa parlare. Fuori dal set si smette semplicemente di esistere, si ferma il logos e ci si ritrova soli senza nulla da raccontar(si). Lucille Le Sueur è, in tutto e per tutto, Joan Crawford e la fabbrica dei sogni è una fabbrica di icone, di idola. Quindi, di fantasmi (e qui diventa ancora più significativa la sequenza allucinatoria dell’ultima puntata).
Che fine ha fatto Baby Jane? non è che l’ultima vendetta della società e degli studios sul potere delle star e sul loro status divino: «l’allusione, ottenuta tramite l’esasperazione delle loro esagerazioni, che non siano mai state reali, mai donne, ma una sorta di scherzo, non certo un esempio di come essere realmente donne ma anzi quasi un ammonimento» (Molly Haskell). Soltanto il recupero della dimensione algica, del dolore, può riempire di senso una faida che altro non sarebbe, altrimenti, che mediocrità dell’odio reciproco e sintomatologia del narcisismo. Solo il valore prospettico della sofferenza può ridare consistenza umana a ciò che Hollywood ha finito per arrotare fino a trasformarlo in icona. Così come aveva già fatto con Marcia in American Crime Story - The People v. O. J. Simpson, Murphy si propone dunque di rivisitare storie di donne in apparenza potenti e pienamente realizzate per mostrarcele nella loro intima fragilità di madri single lavoratrici alle prese con un sistema sessista e manipolatorio. E di storie così non ne abbiamo ancora abbastanza.