American Horror Story - 1984
Giunta alla nona stagione, l’antologia horror di Ryan Murphy suggerisce un congedo dello slasher dal suo caratteristico passatismo citazionista, esplicitando e dando forma estetica e sensibile alla sua nostalgia orrorifica.
Al nono capitolo dell’antologica American Horror Story, Ryan Murphy torna a confrontarsi con il sottogenere dell’horror più amato (e più usurato), memore delle due stagioni di quel gioiellino comedy horror che è stato il suo Scream Queens – che riusciva a tenere insieme in perfetta armonia le esigenze di divertissement, estetica citazionista e critica sociale del Murphy più genuino. Autore prolifico e fedele a uno stile ormai noto, lo showrunner corre, forse, il rischio di non sorprendere più con il suo gusto postmoderno per il livellamento e la rilettura che fa dell’ambientazione di Camp Redwood un non-luogo estremamente capiente, dinamico e democratico dove possono coabitare, senza troppi sforzi di sospensione dell’incredulità, gli slasher di Scream Queens, Halloween e Venerdì 13, gli echi di Bava e Argento e, non ultimo, l’approccio metatestuale di Scream.
A partire da un’unità di luogo (il campo estivo scenario di massacri passati, presenti e futuri) e di logica narrativa (che nello slasher si nutre della tensione fra inseguitore e vittime), la trama di 1984 – come spesso accade nelle stagioni di AHS – si fa calderone di citazioni e ammiccamenti a clichéé visivi e tematici del cinema d’orrore, e di riscritture di vari segmenti narrativi più o meno legati al tema centrale, con l’intento, si direbbe quasi, di allargarne la struttura spesso piuttosto scheletrica (o meglio essenziale) per arricchirla di un contesto più ampio. Operazione probabilmente non necessaria ma che permette alla serie di dilungarsi a piacimento su alcuni tratti tipici del racconto: l’omicidio letto come la punizione divina per una trasgressione sessuale, sviluppato in un vero e proprio discorso sul fanatismo religioso legato al sistema educativo grazie alla figura di Margaret Booth, avvicinandosi così ad un certo filone più o meno recente del cinema queer (La diseducazione di Cameron Post, Gonne al bivio); la figura dell’assassino seriale, inserita in un discorso sulla psicopatologia criminale abbastanza in voga nella serialità recente (Mindhunter, Killing Eve, le due stagioni di American Crime Story dello stesso Murphy) così come nel cinema (La casa di Jack, C’era una volta a… Hollywood, per citare i più autoriali) e indirizzata verso alcuni dei percorsi tracciati dai sequel di Scream riguardo il fanatismo e il mimetismo sociale (si pensi alle sottotrame a tema mediatico che ruotano attorno a Mr. Jingles o al Night Stalker); la final girl sfaccettata e frammentata nei personaggi di Margaret Booth, prima, e nel binomio Brooke Thompson e Rita, poi, usata come occasione per discutere le diverse esperienze di elaborazione del trauma subito, fra il desiderio di tornare nei luoghi fisici o figurati del trauma per estinguerlo o sublimarlo e quello, contrario, di allontanarlo.
Tuttavia, gli elementi più interessanti restano sicuramente quelli metanarrativi che la serie dedica allo slasher stesso, alle sue tendenze ultracitazioniste e, per esteso, a una certa mania passatista del cinema di genere (e non solo), qui simbolizzata dall’ossessione per gli anni Ottanta (gli eighties nell’universo di American Horror Story). Con l’avanzare degli episodi, Camp Redwood si trasforma progressivamente in un purgatorio dal fascino disturbante e perturbante i cui ospiti rimangono intrappolati nel sogno etereo di vivere eternamente in un’epoca morta. Murphy non è sicuramente il primo ad aver notato come lo slasher stia, da tempo, facendo fatica a disfarsi di quella postura autoriflessiva e autoreferenziale consolidatasi dopo la parabola esplicitante della saga Scream – e ancor più dopo la dissezione chirurgica del genere operata da Quella casa nel bosco. 1984 suggerisce, allora, una via d’uscita dall’impasse a cui sembrava essere arrivato il genere, facendo compiere allo slasher stesso un discorso critico sul proprio passatismo, sulla sua ossessione per la ripetizione e la metatestualità, e sfruttando i codici propri dell’horror per dare dimensione estetica e sensibile a questa stessa ossessione così che la prospettiva di un’eterna ambientazione anni Ottanta assuma, ora, la forma di una circolarità spaventosa, angosciante e inadempiente.
Al di là dello stile e del gusto chiaramente postmoderni di American Horror Story, su cui spesso si ha la tendenza ad appiattire ogni sorta di considerazione riguardo il lavoro di Murphy, 1984 ci pone infatti davanti a una problematizzazione di questo meccanismo nostalgico che porta, forse allo svilupparsi di una sensibilità, perlomeno estetica, che sia nuova e capace di cogliere l’orrore insito al suo interno. I teenager intrappolati in un eterno campo estivo, o il falso lieto fine di Mr. Jingles ricongiunto alla madre e al fratellino morti, si accostano facilmente al motivo della casa delle bambole nello Sharp Objects di Jean-Marc Vallée, ai passaggi più orrorifici della seconda stagione di Killing Eve, alla casa dell’infanzia dell’horror dramma familiare Hill House, tutte narrazioni che fanno dei rimandi nostalgici al passato dei simboli spaventosi.
Il purgatorio di Murphy, seppur in costante dialogo con il “San Junipero” di Black Mirror (anche quest’ultimo, fra l’altro, ambientato durante gli anni ‘80) e con il recente filone dell’existential comedy (da The Good Place a Forever, perché questa nona stagione, forse più delle altre, è una comedy-horror) più che all’espediente narrativo che permette di giocare liberamente sulla variazione sul tema, sembra, allora, più interessato a farsi scenario di una sensibilità nuova che si sta sviluppando nei confronti di una ripetizione che somiglia sempre di più a una stagnazione e a una tortura, e verso una fascinazione per il passato sempre più artificiosa e claustrofobica