A Fidai Film
Kamal Aljafari cancella e riscrive le immagini rubate dall'esercito israeliano nel 1982 al Palestine Research Center: è un gesto di necropolitica che risveglia gli occhi dei morti e rielabora le irrisolte dicotomie postmoderne del cinema d'archivio.
Il cinema d’archivio è un linguaggio audiovisivo che certifica ancora molto chiaramente gli effetti dissociativi prodotti dalla postmodernità sul rapporto tra individui e cosa pubblica. Con la sua irrisolta dicotomia tra formule di conservazione sociale e gesti di auto narrazione privata – ultimamente inflazionati dalla fortuna dell’auto fiction - è un genere, un campo espressivo, che non sembra offrire soluzioni di sintesi all’apparente separazione tra personale e collettivo prodotta dallo sgretolamento delle cornici ideologiche, dalla contestuale fine delle grandi narrazioni tradizionali e dal conseguente ripiegamento sul sé più intimo di chi ha provato l’horror vacui identitario. Eppure, è un linguaggio che, sulla carta, per l’incrocio di tensioni che lo costituiscono (tra pubblico e privato, individuale e sociale, personale e socioculturale), si apre a una dialettica generativa rara, che, come pochi altri linguaggi dell’arte, mette in dialogo i soggetti creativi, disponibili a manipolare l’alterità attraverso immagini eterodirette, e cioè non proprie, e l’architettura simbolica del loro spazio pubblico.
Quando riesce a non cedere al conservatorismo fine a se stesso (se non propagandistico magari legittimato dalle ontologie della documentalità, dell’ontologia indessicale, dalla logica di chi sostiene che una traccia faccia già testimonianza d’esistenza) e nemmeno alla contemplazione borghese di chi gioca con il proprio alfabeto privato, è un linguaggio che incontra una terza via, quella di una dialettica relazionale, di una riscrittura aperta che problematizza qualcosa di già dato, qualcosa spesso di morto e sepolto o qualcosa di non visto, e inietta in esso un po’ di luce, o possibilmente una frizione, un’impressione di movimento, che poi si può anche solidificare in un affondo politico. Come in A Fidai Film, ricognizione storiografica su materiale disperso – a causa dell’invasione, nel 1982, da parte dall’esercito israeliano di Beirut, della distruzione del Palestine Research Center e del saccheggio del suo intero archivio – ma anche gesto di manipolazione ispirato all’avanguardia avanzata, in cui le immagini del passato, rubate e censurate, sono viste di nuovo, come per la prima volta.
O forse sarebbe meglio dire non viste per la prima volta. Operando una cancellatura sulle manipolazioni propagandistiche del governo israeliano e riorganizzando invece materiale da esso censurato, Kamal Aljafari infatti procede per “cancellature” – direbbe Emilio Isgrò, che si inventò il concetto negli anni 60 riproponendo la pagina bianca di Mallarmé, “puro regno del possibile” – per produrre un vuoto dialettico più che un nuovo dato storico tra altri dati storici già dimenticati, che interroghi su ciò che è trapassato nell’oblio della dimenticanza collettiva. Aljafari si relaziona con gli inserti audiovisivi prodotti dalle politiche che hanno scritto e riscritto le sorti di individui attraverso una manipolazione segnica, fosse essa una rimozione o una aggiunta, con un iconoclasmo creativo che ricorda anche quello dei graffitari di cui parlava Baudrillard nei suoi discorsi sulla saturazione segnica della società (in particolare “Kool Killer ovvero il sorgere dei segni”).
Come gli autori di graffiti, i “writers”, che con le loro sovrapposizioni indebite, con le loro cancellature e imposizioni segniche, rendono esplicita l’epidemia dei segni nella società, la trasformazione della realtà in segno simulacrale manipolabile e manipolato (a cui loro si accostano per combatterlo con rabbia), ecco che Aljafari si dota di un segno rosso che riarticola i rapporti gerarchici all’interno di immagini già manipolate dal potere, riaprendo una lotta chiusa dalla storia ma nuovamente spalancata dalla forza del gesto, dalla mano che torna al passato per rimestare nel buio. Il risultato è un riorientamento che propone un nuovo modo di ricordare attraverso il contatto con l’invisibile, piuttosto che con la commemorazione del visibile. Cancellando le immagini di altri, infatti, il regista non solo si riappropria della pratica di cancellazione propagandistica, ribaltandola, ma rigenera la domanda di visibilità, la necessità di vedere, di chi ha registrato quelle stesse immagini: cioè fa sì che la memoria di quel passato perduto assuma la forma di una richiesta di sguardo concreto, di un voler vedere, di un voler agire, e si istanzi quindi oltre il rituale della distaccata e progressiva dimenticanza che invece caratterizza il commemorare.
A Fidai Film è in fondo allora un lavoro che per proporre una risoluzione dialettica alle formule dissociate del linguaggio postmodernista del cinema d’archivio si allinea a ciò che la necropolitica (in particolare Achille Mbembe) ha scritto sul rapporto tra memoria, euristica, morte e archivi. Si chiede insomma quale sia il rapporto tra soggetto individuale creativo e soggetto collettivo pubblico e cosa significhi archiviare per entrambi quando le memorie storiche svaniscono e le nazioni utilizzano le istituzioni architetturali (appunto gli archivi storici) non per produrre un surplus di conoscenza dei singoli ma per cristallizzare in uno status controllabile l’angoscia di morte (di dissoluzione, di distruzione) e legittimarsi come padroni del sapere costituito. Guardando le immagini finali del film di Aljafari ci si scontra con la naturale immagine sintetica che lo Stato cerca di produrre attraverso l’archivio, l’immagine della totalità: una totalità sepolcrale costruita su una “morte strutturale” - la morte di chi ha filmato e di chi è stato filmato. E si incontra invece con una riframmentazione, che lascia abbastanza spazi aperti per risignificare l’archivio non come uno dei tanti sigilli della burocrazia del destino ma come una casa infestata, in cui gli spettri del passato si fanno presenti, gridano e ancora ci ri-guardano.