La laguna del soldado
Un documentario che riflette sul trauma del colonialismo dell'America Latina e sul suo lascito contemporaneo a partire dalla "Reconquista" di una regione simbolica come quella del Paramo, all'insegna dell'ambientalismo e dell'ecologia. Ma anche un saggetto centratissimo e intriso di amara ironia su quanto il cinema aiuti a curare i traumi e su quanto sia difficile, oggi, essere davvero militanti.
Campo/Fuori Campo, passato/presente ma soprattutto trauma/ricostruzione. Nel bene e nel male è un film ostinatamente senza mezze misure, La laguna del soldado, scoperto, chiarissimo nel suo approccio, in ciò che vuole dire e, soprattutto, nel modo in cui vuole farlo.
Così questo saggetto ricolmo di amara ironia, che prova a intrecciare Storia, riflessione sul post colonialismo e ambientalismo ripercorrendo, oggi, la regione del Paramo, centrale nella strategia di riconquista dell'America Latina da parte del liberatore Simon Bolivar, e soffermandosi tanto sulle lotte di indipendenza di cui quegli spazi furono teatro quanto sui volti e sulle parole di quei contemporanei che con quella regione, con quegli ecosistemi ancora traumatizzati, devono confrontarsi, questo film di Pablo Alvaro Mesa usa tutti gli strumenti di quei documentari che si propongono di ragionare sulle ferite degli immaginari: i fantasmi, solo evocati (quello dei conquistadores, quello di Bolivar, il cui Delirio, straordinaria bellissima poesia che scrisse quasi per autoinvestirsi del ruolo di liberatore delle Americhe, apre il film), la tragedia lasciata fuori campo, la presenza umana ridotta al minimo, il racconto del dramma della colonizzazione irrimediabilmente potenziato dai contemporanei che lo evocano dalla distanza.
È indubbio che le sue carte migliori La laguna del soldado se le giochi davvero nel bel primo atto, vicinissimo al linguaggio del cinema contemplativo, con la macchina da presa che si immerge nel silenzio e si sofferma a osservare per lungo tempo la natura priva di presenza umana, gli altipiani, i fiumi, la vegetazione ricchissima. In questi spazi costantemente rimessi al centro dell’inquadratura, (ri)-visti dallo sguardo del regista, pare esserci la ricerca di un nuovo modo non solo di tornare alla natura ma proprio, più pragmaticamente, di misurare nuovamente le distanze tra noi e il mondo esterno, di ridare un nome alle cose, di ricostruire la vera e propria cornice ermeneutica dopo la tragedia culturale del colonialismo. O forse anche solo di riprendere contatto con il linguaggio visuale che in effetti, dopo una prima parte così sperimentale, diventa più leggibile. Tornano dunque in primo piano i volti, i corpi degli eredi dei colonizzati e le forme del genere vengono assecondate con più convinzione, a tal punto che da quel momento in poi La laguna del soldado "parla" la sintassi riconoscibile di un documentario convenzionale, che si attarda sui sentieri montani e, forse soprattutto, sui particolari del Fralejon, la pianta endemica del Paramo, diffusa fin dai tempi di Bolivar e di cui ora viene riscoperta l'importanza "ambientalista" data la sua capacità di conservazione del vapore acqueo. Ecco, forse alla seconda parte del documentario di Pablo Alvarez Mesa manca la vertigine concettuale che l'ha preceduta ma il muoversi in uno spazio noto, ricostruito, leggibile, permette al contempo di soppesare la portata politica dell'immaginario a cui si fa riferimento, anche solo attraverso la scelta dei materiali, il montaggio, gli spunti offerti dalla messa in scena.
A colpire allora, da un lato è lo sguardo affettuoso con cui Mesa osserva lo spazio che lo circonda, teso tra la razionalità scientifica e un atteggiamento quasi animista tipico della sua cultura ancestrale con la natura, ma soprattutto, dall'altro, l'ironia giocosa con cui, tra i fotogrammi, si diverte a cambiare di segno, nel presente, a tutto l'immaginario dei conquistatori, delle loro pratiche, dei loro riti, che pare dominare ancora l'inconscio collettivo degli abitanti di quella terra.
Non stupisce, allora, se tutti gli studiosi, i botanici, i biologi intervistati da Mesa concordino nel raccontare le loro attività di ricerca come un tentativo di riprendere possesso degli ecosistemi del Paramo per proteggerli e studiarli ma senza mai escludere l'elemento umano dall'equazione e dunque, ad esempio, senza costringere gli abitanti della regione ad allontanarsi da particolari zone per esigenze di conservazione, quasi fossero essi stessi dei conquistadores etici.
A rimanere fissa, saldissima, è la fiducia nell'immagine, nell'archivio costantemente aggiornato della biologia del Paramo che si costruisce attraverso il linguaggio proprio del cinema: "Stiamo scattando una fotografia del qui ed ora della foresta", racconterà uno dei ricercatori nel corso del documentario, giusto pochi secondi dopo che un etologo ragioni come, per studiare i comportamenti dei pipistrelli che popolano la zona, la prima mossa da compiere è rallentare al massimo la registrazione dei loro versi, affidandosi quasi a uno "zoom" che ingrandisca le frequenze dei loro ultrasuoni. E mentre la ricerca lavora a una "biblioteca naturalista" (altra immagine ricorrente), questo continuo osservare, portare in superficie, rinominare, ricostruire attraverso le immagini arriva a svelare certi segreti meccanismi della contemporaneità.
Forse, in prospettiva, la seconda parte de La laguna del soldado chiede semplicemente più pazienza da parte dello spettatore, che si ritrova di fronte ai passaggi più disincantati, amaramente cinici del documentario, centratissimo nel raccontare certe storture del governo locale (che secondo alcuni degli intervistati si comporta in modo non troppo distante da chi quelle terre le ha martoriate centinaia di anni fa) ma anche nell'osservare amaramente lo stato di salute dello spirito ribelle, militante locale, che è quasi obbligato a reinventarsi attraverso questa lettura etica, scientifica della Reconquista, se è vero che il guerriero Bolivar ora è ridotto a un nome simbolico da evocare con calore ma senza troppa convinzione e della sua campagna, della sua avventura, non rimane altro che del materiale buono per dei musei.
Come a voler chiudere su un'ultima dicotomia, su una Storia che, nel momento in cui chiede di essere rievocata torna in gioco come farsa, quasi a porre in campo Quetzalcoatl, il serpente piumato azteco simbolo del tempo circolare, che mangia sé stesso, forse l'ultima vestigia apposta a uno spazio che chiede, con tutto sé stesso, di tornare all'origine di un'identità.